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Questo articolo è stato pubblicato il 08 aprile 2012 alle ore 08:16.

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Di Marco Tullio Cicerone proprio non si può dire che sia stato un grande filosofo. Intelligente, affabulatore, astuto, colto, forse il più grande retore del mondo antico, ha avuto tuttavia nella storia del nostro pensiero un ruolo fondamentale: «Nessun greco sarebbe stato capace di diffondere, come ha fatto Cicerone, il pensiero greco per il mondo», così Concetto Marchesi. Banalmente inserito nei manuali tra gli Eclettici, definito colui che «offre, in certo senso, il più bel paradigma della più povera delle filosofie, che mendica da ogni Scuola brandelli di verità» (Giovanni Reale), il giovane di provincia (Arpino, Frosinone) e di bassa nobiltà, a quindici anni era già a Roma ad ascoltare l'epicureo Fedro con l'amico di sempre, Tito Pomponio Attico.
Paradossalmente, gli scritti filosofici, politici e privati di Cicerone sapranno trarre qualcosa di buono dagli Stoici, dai medioplatonici e dai testi di Platone stesso, dall'Aristotele essoterico, in parte dallo scetticismo, addirittura dalla religione misterica conosciuta e praticata in Grecia, ma avverseranno sempre l'Epicureismo. Cicerone non fu originale nemmeno nel mescolare le diverse correnti filosofiche, perché nel primo secolo a.C. a Roma tutti erano un po' tutto. Però, questo uomo politico così italiano, così pronto a passare dalla parte dei vincitori, per poi ottenere il perdono di quelli che prima sembravano vinti (così andò con Giulio Cesare), ha lo straordinario merito di avere latinizzato (italianizzato?) otto secoli di filosofia destinati a perire con la lingua greca e quella latina pura.
Solo cinque secoli dopo Severino Boezio si renderà conto di essere l'unico in grado di tramandare ai posteri Platone e Aristotele, ma fu lento (ritradusse e commentò più volte le stesse opere) e morì decapitato ancora troppo giovane. Lo stesso genere di morte che colpì Cicerone a Formia nel 43 a.C., quando Antonio lo fece raggiungere e uccidere. Antonio voleva una monarchia, Cicerone, ora da una parte ora dall'altra, sosteneva fortemente l'antica res publica e contro Antonio aveva sfogato tutto il suo ardore nelle Filippiche. Imperdonabile. Ottaviano, il futuro Augusto, disapprovò questa morte: Plutarco lo descrive anziano incoraggiare un nipote a leggerne le opere, perché «fu un saggio, ragazzo mio, e amò la patria».
La patria, di cui fu definito "padre", dopo aver sventato la congiura di Catilina, la patria che contro il corso della storia voleva trattenere legata agli antichi costumi, alle virtù della repubblica, con l'aiuto della retorica, della politica, e anche della filosofia, se i frammenti del De re publica ci raccontano il sogno di Scipione, una visione di armonia mundi decisamente pitagorico-platonica. È quella stessa armonia che Marco, della gens Tullia, detto Cicerone, vorrebbe a Roma: basta con la corruzione (vedi le Verrine), basta con le cariche ereditarie, spazio politico anche agli homines novi, come lui era. Per sostenere questo appassionato attaccamento a un virtuoso passato, l'amore per la filosofia lo aiutò a trovare le basi teoriche di quel bene e quel male che più che come principi gli si presentavano come azioni, secondo le lezioni di Posidonio a Rodi, e quelle di Diodoto, un altro stoico, a casa sua. Studiò filosofia e ascoltò filosofi per tutta la vita, ma scrisse opere filosofiche solo negli ultimi anni della vita, forse conscio di un fallimento, forse entusiasta di una nuova via per tentare di convincere i romani. Scrisse dei confini tra bene e male, degli Stoici e degli Accademici, della natura degli dei, del fato, della divinazione (fornendo molti materiali ai futuri apologeti cristiani), dell'amicizia e della vecchiaia, compiendo la fondamentale fatica di inventare un lessico filosofico latino e di far incontrare le diverse opinioni, secondo lo stile di quei dialoghi immaginari che si diranno "ciceroniani".
E poi inventò il senso del dovere. Come, d'altra parte, convincere una Roma già traboccante di corruzione a fare il bene gratuitamente, a non frodare, a occuparsi degli altri, se non ricorrendo all'aiuto della filosofia? Gli Stoici nel classificare i beni e i mali, avevano individuato alcune azioni in sé indifferenti, ma che se compiute in modo razionalmente corretto diventavano azioni convenienti, ovvero doveri. Cicerone traduce kathekon con officium, e l'anno prima della sua morte dedica al figlio Marco un De officiis destinato a penetrare profondamente la cultura occidentale con la ricerca di ciò che è giusto fare, si deve fare, appoggiando l'onestà a quattro articolazioni già platoniche e mediostoiche, poi cristiane: sapienza, giustizia, fortezza, temperanza.
Non è vero, come sostenevano Platone e gli antichi Stoici, che il filosofo è buono per definizione, perché conosce la bontà, perché ha saggezza e sapienza. Virtuoso è l'uomo che pratica giustizia e benevolenza, che disprezza i vantaggi materiali, si comporta in modo adeguato al suo ruolo (persona), e quindi se può compie azioni di soccorso o elemosina senza attendersi di essere ripagato. Con il figlio Marco, una generazione di romani avrebbe potuto imparare qualcosa da un uomo che si definisce poco simpaticamente il migliore tra gli oratori, se pur concedendo onestamente «a molti altri la palma della conoscenza filosofica» (I, 3). Ma ormai Antonio inviava a Formia i suoi sicari, e Ottaviano in pochi anni sarebbe diventato Imperator Caesar Divi filius Augustus.
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Marco Tullio Cicerone, De officiis. Quel che è giusto fare, a cura di G. Picone e R.R. Marchese, testo latino a fronte, Einaudi, Torino, pagg. 370, € 30,00

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