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Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2012 alle ore 12:43.

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Ripartiamo dall'«altro» UlisseRipartiamo dall'«altro» Ulisse

C'è un lavoro di scoperta che si compie sul rimosso e gli scarti, sulle censure. Rinnovate esperienze baluginano da pagine morte. È il caso di questo testo di Adorno sull'Odissea (Interpretazione dell'Odissea, a cura di S. Petrucciani, manifestolibri). L'Ulisse che Horkheimer e Adorno avevano chiuso in un paradigma troppo severo nella Dialettica dell'Illuminismo cede il posto a una figura meno scontata. Non c'è alcun cambio di scena; cambia il soggetto. All'Io consapevole e maturo che tramite l'arma rodata di un'astuzia che è già smartness borghese ottiene sopravvivenza sacrificando le sue più istintive pulsioni e arrischiati ideali di "felicità", si sostituisce un personaggio mutante e imprevedibile più simile al suo avversario Proteo – il trasformista – che a un Robinson anzitempo, archetipico. L'astuto Ulisse torna a essere l'andra polutropon, «l'uomo dai molti percorsi»; la sua dimensione autentica è «l'arte dell'inganno» (l'arte di Proteo).

L'altro Ulisse di Adorno (quello scampato alla rassicurante ratio della censura) non è un'icona del "controllo" sempre uguale a se stessa contro il mondo, ma il viaggiatore che solo viaggiando si inventa e crea se stesso (e non ha alcuna casa a cui tornare). Come «romanzo d'avventure», l'Odissea segreta di Adorno mette in scena la contrapposizione «non psicologica» tra «l'unico Io superstite» e un «destino molteplice, periglioso, estraneo» che è pura erranza. La vita, il romanzo, di Ulisse, è un «itinerario del sé attraverso i miti» ma il vero segreto dell'uomo dai molti percorsi sta in questo suo non essere niente al di fuori delle proprie peripezie, da questo gran vagare senza fine. «Odisseo, come gli eroi di tutti i romanzi successivi degni di questo nome, fa getto di sé per ritrovarsi».
È una parabola che sembra confermare un'osservazione dell'ultimo Barthes (La preparazione del romanzo, Mimesis): per la narrativa «valgono più gli inganni della soggettività che le imposture dell'oggettività».

Battuta – fulminante, ironica, allusiva – che riguarda anche il romanzo, oggi, in Italia. Dal lamento sull'immaginario "colonizzato" alla registrazione del tono di fondo intriso di umiliazione di molta narrativa recente (ne ha parlato su queste stesse pagine Giorgio Vasta), emerge un tratto comune ricorrente. Si scrive a partire dalla lesione di un risentimento (non sempre consapevole, voluto). Risentimento verso il «corso del mondo», l'andazzo corrente; risentimento che articola il suo dispetto contro i modelli (anti)culturali, le generazioni passate, la politica. Un confuso noi generazionale rivendica, recrimina, lamenta e poi, da dentro questa ferita, si vuol mutare in ritrovato impegno, denuncia indignata. Il ricatto dell'attualità viene spacciato come critica del presente ma il codice del nuovo realismo italiano che in questo progetto sembra affermarsi nasconde una lacuna più profonda.

Quel «noi» affermato con finta nonchalance o candidamente cela appunto la... mancanza del soggetto. Nel romanzo presente, oggi, in Italia, l'identità («il personaggio che dice Io») è data per presupposta, anzi subita, e l'affascinante e inaffidabile lavoro di viaggio, scavo, scoperta, invenzione e reinvenzione di se stessi, è lasciato fuori scena, anzi mancato. Le «imposture dell'oggettività» vengono criticate anche con enfasi mentre l'Io giudicante è considerato ovvia presenza. Singolare atteggiamento, francamente. Qualche esempio, per farsi capire. Anni addietro fummo un po' tutti stregati dalla trilogia di Roth o da Mordecai Richler, ma di cosa trattavano quei romanzi (in particolare La macchia umana) se non di questo progetto arbitrario e ultramoderno della costruzione del sé, tra trucchi e inganni e maschere e simulazioni? Il falsetto o il birignao di troppi «Io» di maniera, prodotti in serie, si esibisce come patente di umiltà per dire meglio il presente, più onestamente, ma l'éscamotage tradisce un peccato (a essere generosi) di ingenuità.

L'«Io so» di Pasolini si è democratizzato in petulanza da giornalino scolastico. È una deriva facile, e noiosa, che elude il paradosso decisivo. Per fare i conti davvero col reale, per attraversare il «grande mare dell'oggettività», occorre una soggettività meno timida e discreta, meno "educata". E – diciamola tutta – meno innocente. Nella lotta tra te e il mondo non schierarti ma sbatti in faccia al mondo un Io eccessivo (l'esatto contrario dell'onfaloscopico ruminare dell'autofiction o del narcisismo finto maudit dei vari Moresco e dei vari De Luca). L'Io bisbetico, burbero, soverchiante, sguaiato, ipocritamente mimetico e sempre sopra le righe del Barney di Richler (compiuta reincarnazione dell'andra polutropon, questo impostore) sconfessa senza appello la candida paccottiglia del cuore oggi in gran voga.

Tocca ripartire da Ulisse, anzi dall'altro Ulisse, quello cancellato e smarrito, senza nostos. Strappata all'ovvio, al pigro, al conciliato, la creazione di sé si riafferma terreno di battaglia, gioco, avventura solo fuori da ogni estetismo compiaciuto. La letteratura non è discorso apofantico, verità, ma solo una mediocre variante dell'eterna e infinita arte dell'inganno. Per tornare a dar voce al «personaggio che dice Io» – e, ovvio, non è questione di pronomi – si deve tornare a esplorare il campo di tensione tra menzogna e sortilegio. Al dover essere denunciante di tanti (troppi) giudiziosi romanzieri si privilegi l'esperienza aperta di «molti percorsi», un itinerario «attraverso i miti». In letteratura vuol dire quantomeno «ibridare» i linguaggi e i generi e le voci; complicare all'infinito; osare ancora. Quanto a Barthes, lui aveva ragione e torto, e torto e ragione. Perché l'Io non è niente, in fondo, è un'impostura, e quel che conta davvero è l'inganno del mondo. Significato della vita e morale della storia proseguono a scrutarsi – per speculum et in aenigmate – ambiguamente.

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