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Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2012 alle ore 12:45.

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Se Charles Dickens fosse vivo, di mestiere farebbe lo sceneggiatore di serie televisive. A sostenerlo sono scrittori e autori americani e quindi di parte (tra loro Carlton Curse, sceneggiatore di Lost), ma le argomentazioni che usano sono solide abbastanza da meritare attenzione.

Punto primo: Dickens è un grandissimo storyteller, in grado di creare personaggi le cui gesta si espandono ben oltre la pagina scritta e le cui vite continuano a esistere nella mente dei lettori, esattamente come i personaggi televisivi continuano a vivere ben oltre la comparsa della parola fine. Secondo, Dickens conosceva la serialità: i suoi racconti, prima di diventare romanzi, erano pubblicati su riviste mensili o settimanali, particolare che fa di lui un esperto nell'arte di creare aspettative. Terzo, e forse più importante: non è solo uno scrittore con forti radici nell'attualità, ma addirittura sembra prevedere, anticipare i tempi in cui viviamo. Prendete una vicenda come quella della truffa di Bernie Madoff. È già tutta in La piccola Dorrit. Il collasso del sistema scolastico? Basta leggere Nicholas Nickleby e il signor Squeers.

La piccola criminalità? Oliver Twist, naturalmente. «Per scrivere una serie come Lost non potevamo rivolgerci a modelli televisivi preesistenti, per il semplice motivo che non c'era nulla di simile», dice Curse al Daily Beast. «È per questo che abbiamo guardato a Dickens: la sua più grande qualità è suscitare nel lettore non solo la curiosità per quello che accadrà nella storia, ma per quello che accadrà a ogni singolo personaggio della storia. Che è esattamente quello che abbiamo cercato di riprodurre in Lost». Ben lungi dall'essere una provocazione, quella di Curse è un'analisi oggettiva. Soprattutto è un omaggio, uno dei tanti che in questi mesi stanno arrivando all'indirizzo dello scrittore inglese in occasione dei duecento anni dalla nascita e che, in modo diverso, sottolineano tutti la stessa cosa: il primo a essere contento di certi accostamenti pop sarebbe proprio lui, Charles Dickens. «La coincidenza tra vita vissuta e vita letteraria è una delle cose che lo rendono eternamente affascinante», scrive Christopher Hitchens nell'articolo pubblicato postumo da Vanity Fair.

Una caratteristica, a pensarci bene, che è alla base di tanto cinema e tanta moderna televisione, reality show compresi. Non solo: «Se c'è una cosa centrale nell'insegnamento lasciato da Dickens», scrive ancora Hitchens, «è l'esortazione a rimanere attaccati all'infanzia, al bambino dentro di noi». Ben vengano quindi i gadget, le infinite riletture televisive, le figurine, i dvd, gli album con i testi trasformati in canzoni, il turismo letterario a metà tra omaggio e sfruttamento (di cui Dickens stesso si fece complice in vita, commissionando quadri ispirati ai suoi personaggi, o dando alla figlia il nome di Dora, come la Dora Spenlow amata da David Copperfield). E ben venga anche Dickens World, il parco divertimenti aperto nel 2005 nel Kent e collocato tra un cinema Odeon da una parte e un outlet dall'altra. Con le attrazioni metà funzionanti e metà no per mancanza di soldi è la quintessenza dell'esperienza dickensiana, contraddizioni comprese: cultura mista a intrattenimento, povertà mista a divertimento.

Un progetto così imperfetto che sarebbe di sicuro piaciuto allo scrittore. Così come sarebbe lusingato di scoprire che nelle collezioni del prossimo inverno lo stile vittoriano la fa da padrone: da Vivianne Westwood a Dolce & Gabbana, tutti gli stilisti hanno ammesso di essersi ispirati a Dickens, in omaggio al duecentenario. Se poi queste citazioni non dovessero bastare, ecco arrivare la genetica sotto forma di Harry Lloyd: 28 anni, attore, basetta importante, Lloyd è il pronipote di Dickens. Il suo ruolo più importante fino ad ora è stato quello di Herbert Pocket in un riadattamento di Grandi speranze prodotto dalla BBC, ma se in un futuro neanche lontano dovessimo vederlo in un film di vampiri nessuno si scandalizzerebbe. Tanto meno il suo bis bis nonno.

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