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Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2012 alle ore 14:46.

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Vista con gli occhi di un economista felice la crisi di oggi è semplicemente senza senso. «L'unica cosa di cui ci sarebbe bisogno è una banca centrale normale. Se solo i tedeschi lasciassero fare alla Bce quello che fanno Fed e Bank of England...». Saremmo senz'altro tutti più allegri. Richard Layard 78 anni, Lord per volontà dei laburisti ed economista anche per caso (è direttore del Centre for economic performance della London school of economics) non lo dice, ma crediamo lo pensi, mentre alla mensa della Lse consuma la sua seconda presa di "five a day", porzioni di frutta e verdura che aiutano gli esseri umani a stare in salute. Insieme con i colleghi Jeffrey Sachs e John Helliwell ha preparato il primo rapporto sullo stato della felicità nel mondo. È stato presentato nelle scorse settimane alle Nazioni Unite con il case story del Bhutan, il primo Paese che per volontà di un sovrano illuminato ha introdotto il Gnh, Growth national happiness con l'ambizione, un giorno, di sostituire il Pil come indicatore di sviluppo.

C'è da cadere in disperante tristezza al solo pensare che i criteri di Maastricht dovranno adeguarsi al disavanzo del 3% della felicità nazionale. Ricominciare tutto, francamente, toglie il sorriso. Nessuno, in realtà, ha ancora immaginato un'operazione tanto impervia, ma liquidare con levità l'index of happiness sarebbe un errore, trattandosi, quantomeno, di un'efficace scorciatoia intellettuale per dire che il denaro non è tutto. In realtà continua a essere molto se al vertice delle graduatorie sullo stato della contentezza umana si collocano i ricchi Paesi del nord Europa – Danimarca, Norvegia, Finlandia, Olanda – relegando l'Italia sotto Porto Rico e Arabia Saudita, appena prima del Kuwait (ma meglio della Germania!), molto giù, quindi, nella lista che condanna al fondo i più derelitti stati africani. «Il caso opposto al blocco nordico – spiega Layard – è quello degli Usa. Travolti da uno straordinaria crescita, gli Stati Uniti, non hanno visto progredire il livello di felicità in modo simile (sono più infelici dell'Irlanda ndr). È il paradosso di Easterlin secondo cui gli individui più ricchi sono più felici dei poveri, ma una società che s'arricchisce non diventa necessariamente più felice. Dipende da diversi fattori, compresa l'abitudine a misurarsi con gli altri e quindi a scorgere inalterate differenze relative in caso di crescita uguale per tutti. Fenomeno che peggiora, in caso di sviluppo disarmonico, quando aumenta la diseguaglianza».

Contano, poi, l'adattamento e i fattori sociali. Tutto questo spiega perché, nel caso americano, tanta ricchezza non abbia portato altrettanta felicità. Anzi la caccia alla ricchezza, si legge nel rapporto, può produrre un effetto paradosso generando frustrante infelicità. «La soglia della felicità economica immaginata da taluni è un reddito di 75mila dollari», aggiunge Richard Layard soddisfatto per la performance alle Nazioni Unite di un'iniziativa che per lui è missione di vita. «Sono sempre stato interessato al tema della felicità. Sono diventato economista a trent'anni, una professione che mi ha dato disciplina e metodo portandomi a studiare i temi della disoccupazione e lavorando, in particolare, sui danni psicologi avvertiti da chi non si sente più necessario». Infelicità questa volta, stessa materia vista al rovescio. Il lavoro è un fattore sociale chiave per costruire un mondo di cittadini allegri se è vero, come il rapporto suggerisce, che perdere l'occupazione pesa quanto un lutto o una separazione. Richard Layard annuisce e conferma: per questo il Pil dovrà lasciare spazio al termometro della serenità media. «L'obiettivo finale è sostituire l'indice sulla progressione economica con quello sulla felicità. Sarà un'indagine statistica, ma lo è anche il dato sul Pil nonostante pochi lo sappiano e, come il Pil oggi, consentirà di orientare le politiche dei governi. L'Ocse è già al lavoro. Ora si tratta di creare un meccanismo globale che vada oltre le realtà più industrializzate. Il prossimo appuntamento è nel settembre 2013 quando alle Nazioni Unite presenteremo il secondo rapporto sullo stato della felicità planetaria».

Ora di allora una voce degli indicatori per la rilevazione potrà ricadere sotto il capitolo cultura. «Nell'accezione più ampia la cultura – aggiunge l'economista – è centrale a questo progetto perché implica un approccio del tutto diverso a quello corrente. Ma anche l'evento culturale specifico, sia esso letterario, musicale o visivo, ha un ruolo essenziale perché contribuisce a fissare i valori di una società. Un episodio di cultura è limitato in sé stesso, ma ha la forza di determinare un profondo impatto sulla formazione collettiva».

La cultura nutre la felicità e Richard Layard spinge la marcia verso il sorriso – promuove fra l'altro un movimento specifico (www.actionforhappiness.org) – in un mondo che oggi non sembra aver tempo per rendersi felice. «Gli eventi pubblici hanno un effetto molto più marginale di quanto si creda, quella che conta è la dimensione personale. È utile leggere Viktor Frankl su questo punto. Gli indicatori usati nelle rilevazioni chiedono come si sta, non perché si sta nella condizione descritta. Tocca ai governi domandarsi le ragioni e agire di conseguenza. Oggi troppa attenzione è dedicata alle condizioni esterne, troppo poca alla vita privata dei cittadini. Una persona su dieci, nel primo mondo, è affetta da disturbi e affezioni mentali di diversa gravità e questo deve portare i governanti a dare crescente sostegno alle dinamiche famigliari. Più welfare? Direi diverso, ci sarà un cambio delle priorità. Vorrei vedere un ministero per la salute mentale e forse ci si arriverà. La Gran Bretagna è all'avanguardia nel mondo nel porre la felicità al centro del progetto politico e non solo perché il dicastero della sanità è ormai diventato uno dei più importanti dell'esecutivo. David Cameron è stato esplicito nel suo impegno un anno fa». È stato il primo capo di governo, sovrano del Buthan a parte, a fare della felicità un punto del programma illustrando con ragionevole approssimazione la società che vorrebbe sviluppare. È tema trasversale a Westminster, appassiona anche laburisti e liberaldemocratici in una piattaforma ultraideologica del mondo che nascerà. Anzi, che per un economista felice è già nato.

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