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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2012 alle ore 08:19.

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Gilles Clément, paesaggista filosofo, immagina lo stupore di chi, in un secolo a venire, si imbatta in immagini di siepi potate, getti d'acqua, balaustre e chioschi – ornamenti ormai desueti, come le parrucche incipriate, giacche e cravatte. Mentre quanto l'epoca ventura chiamerà giardino passa ai giorni nostri per natura.
Teorico della terra come bioma planetario in movimento perenne, irriducibile a recinzione, in Breve storia del giardino Clèment attinge alla preistoria per delineare il futuro. Nel 1974, viaggiando tra i pigmei alla ricerca di Papilio antimachus, assiste al passaggio dal nomadismo alla sedentarietà: il primo recinto della storia, un orto. Ecco sfatato un luogo comune: il giardino non nasce dalla ricerca di un ozioso paradiso perduto, ma da bisogno alimentare. Non c'è utopia teatrale traboccante di fontane e di grotte che tenga: perfino a Versailles il più tecnico e spettacolare dei giardini rimane il Potager du Roi. Nulla potrà mai cancellare l'urgenza e la legittimità dell'orto, nonostante l'Ottocento pudico abbia tentato di nascondere, con le gambe dei tavoli, la realtà nuda di un affamato corpo a corpo con la terra. Come gestire il patrimonio di giardini e orti storici? Accontentarsi, privi della forza lavoro del passato, di preservarne l'immagine con tecnologie chimiche pare a Clément inaccettabile. Meglio individuare metodologie compatibili con la nuova consapevolezza ecologica: anche a costo di smussare il disegno lasciando inerbire certi passaggi. Una sfida è stata per lui ideare soluzioni che preservassero lo spirito di libertà nell'orto geometrico, liscio eppure "sovversivo" creato da Alexandre de La Rochefoucauld a La Roche-Guyon.
Un giardino è incompatibile con la nozione di museo: è cosa viva, un curatore sbaglierebbe a considerarlo mera architettura. Clément chiede per quanto tempo ci affideremo alla chimica, rifiutando l'aiuto gratuito offerta dalla natura a patto di conoscerne le dinamiche. La sfida, per i giardini storici, è conciliare memoria ed ecologia. Ma anche inventare nuove modalità: giardini che siano anche depurazione delle acque di lagunaggio, come ad Harnes, oppure bonifica di siti industriali come a Duisburg nella Ruhr. Il compito è proteggere la vita minacciata su ogni fronte. Che è anche la preoccupazione di David Suzuki: ci sarà un mondo da lasciare ai nostri figli? Biologo, imparò ad amare la natura da ragazzo, quando durante la guerra fu internato con altri canadesi di origine nipponica in un campo sulle Montagne Rocciose. Nel 1962 la lettura di Silent spring, grido di allarme di fronte alle campagne mute di uccelli per l'uso dei pesticidi, gli aprì gli occhi sull'uso sbagliato della scienza. Gli effetti delle innovazioni tecnologiche si scoprono sempre dopo: dell'energia atomica come del Ddt si vedono prima il potenziale d'uso, poi l'effetto collaterale. Ed ecco che lo scienziato si dedica, per svegliarci alla precarietà in cui versa il mondo, a una intensa divulgazione. Non sarà facile indurre la specie umana a desistere dall'autodistruzione. L'eredità traccia linee guida per uscire dal vicolo cieco di fonti d'energia in via di esaurimento: una lotta contro il tempo. La capacità distruttiva conquistata dalla specie umana è immensa. Le risorse sono quasi esaurite, sempre più vaste le zone morte nell'oceano, spariti i girini dai fossi e i grandi pesci spada.
Nel corso della sua vita Suzuki ha visto un cambiamento drammatico. Possibile che la nostra scomparsa sia l'unica salvezza per gli altri esseri, che umanità e mondo naturale si trovino in rotta di collisione? È mortificante pensare che, se gli umani si estinguessero, la biodiversità tornerebbe a prosperare. Che guaio invece, per l'ecosistema, se a scomparire fossero le formiche. Quattrocentomila anni fa noi umani non facevamo paura a nessuno, adesso la nostra stupefacente crescita demografica impone di trovare, e al più presto, una soluzione alla crisi. Ma nulla potrà cambiare, afferma Suzuki, finché non avremo compreso che economia ha la stessa radice di ecologia, occorre quindi inventarne una nuova basata sulle realtà biologiche della natura, abbandonare l'attuale che esige il sacrificio di tutto il resto. Elevare l'una al di sopra dell'altra nasce dall'errore di ritenersi immuni alle leggi di natura. Urge cambiare i nostri obiettivi, puntare non alla crescita del Pil, ma a quella del Gpi, del progresso reale delle condizioni di vita: ripulire aria e fonti, costruire città adatte al clima, con strade dal fondo permeabile, edifici in grado di catturare la luce del sole e la pioggia che scende dal cielo, coltivando il cibo sui tetti, giardini – e anche qui Suzuki incontra Clément – che siano paesaggi naturali e non monoculture erbacee.
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Gilles Clément, Breve storia del giardino, Quodlibet, Macerata, 2012, pagg. 130, € 14,50
David Suzuki, L'eredità. Proposta per un futuro sostenibile, Orme, Milano, 2012, pagg. 124, € 12,00
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