Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2012 alle ore 08:16.

My24

Bisogna avere uno sguardo acutissimo per svicolare dalla selva di pregiudizi che ingombra la nostra storia della cultura. Bisogna avere l'"occhio di lince", come avvertiva già il principe Federico Cesi nel 1603, anno in cui fondò l'Accademia dei Lincei. Il filosofo Paolo Rossi, che purtroppo ci ha lasciato il 14 gennaio scorso, non a caso era accademico dei Lincei: era dotato di un infallibile sguardo da lince. Grazie al suo sguardo è stato possibile fugare molti errori interpretativi, e rileggere secondo una prospettiva del tutto nuova gli esordi della modernità e della cultura scientifica europea. Ed è sempre grazie al suo sguardo che è stato possibile rivalutare la figura di un intellettuale assai complesso, giudicato da Arnaldo Momigliano uno «studioso assai peggiore rispetto ai suoi contemporanei». Si tratta di Giambattista Vico - cui Rossi dedicò nel 1969 il saggio Le sterminate antichità - pensatore che, se da un lato mostrò di essere un isolato conservatore del suo tempo, dall'altro evidenziò atteggiamenti culturali romantici e quasi rivoluzionari. Nella sua opera, infatti, sono rintracciabili intuizioni che saranno poi di fondamentale importanza per il pensiero europeo successivo: tra di esse, osserva Rossi, furono «il rispetto per il momento fantastico della vita umana; la difesa appassionata del mondo della poesia, della fantasia e del mito; e, soprattutto, l'insistenza su una necessaria pluralità di metodi nei diversi campi del sapere».
La Introduzione alla Scienza Nuova di Vico dello studioso pisano Leonardo Amoroso, continua l'opera meritoria di rivalutazione del pensatore napoletano vissuto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, e offre, con occhio altrettanto acuto e in maniera originale, un'interpretazione convincente di uno dei testi più controversi della tradizione umanistica italiana moderna, la Scienza nuova. Un'opera che, come racconta l'autore nella sua Autobiografia, fu il frutto provvidenziale di un lungo periodo di crisi causato dalla grande "disavventura", l'essere stato bocciato a un prestigioso concorso per una cattedra universitaria. Non si può negare che Vico fosse una voce fuori dal coro. Lo si nota nella sua accesa polemica contro Cartesio, al quale rimprovera un eccesso di astrattismo razionalistico nella strutturazione del sapere. In particolare, nell'insegnamento, Vico sostiene che il nozionismo astratto ha poca presa sulle menti dei giovani, perché in loro è in atto un maggiore esercizio di altre facoltà più vicine al senso, la memoria e la fantasia. Nel criticare il "riduzionismo" cartesiano, Vico non solo rivaluta un genere di "pensiero sensibile" che fa della Scienza nuova una sorta di trattato di estetica - intendendo per essa la scientia cognitionis sensitivae di Alexander G. Baumgarten -, ma si prende anche gioco dei boriosi accademici contemporanei i quali, imponendo il dogma dell'ipse dixit, credevano che la verità fosse separata dall'esperienza.
Al cogito ergo sum Vico risponde con il suo verum et ipsum factum, mettendo sotto gli occhi dei filosofi del suo tempo come l'unica certezza su cui fare affidamento non sia la verità metafisica, bensì l'esperienza della storia, che essendo stata fatta dall'uomo, può essere da questi compresa. La Scienza nuova è pertanto una ricostruzione delle origini della storia umana, che analizza i duemila anni anteriori alla nascita di Cristo, un periodo in cui si sono realizzati gli eventi più importanti per l'umanità: la nascita di istituzioni e riti civili come i tribunali, le nozze e la sepolture, nonché la nascita del linguaggio. Fa bene Amoroso a parlare di una "svolta linguistica" ante litteram. Per Vico, che elabora una sorta di antropologia semiotica, l'esperienza della storia umana è incarnata nel linguaggio, il mezzo che rende possibile ogni esperienza nell'uomo. Per questo egli attribuisce tale peso alla filologia, considerandola vicina alla filosofia.
Quando ci interroghiamo, davanti alle immaginifiche pitture rupestri di Lascaux, dovremmo ricordarci che Vico aveva già intuito una chiave interpretativa al riguardo: quei rozzi "bestioni", che non avevano strumenti per comprendere le sottigliezze dei discorso cartesiano, avevano però già un linguaggio, perché comunicavano mediante segni visivi, gesti e disegni; essendo dotati di vigorosa immaginazione e fervidi sensi, come fossero i fanciulli dell'umanità appena nata, trasformavano la loro esperienza della realtà in un pensiero sensibile. I primi uomini erano "poeti" (dal greco poieo: fare) perché partendo dall'esperienza del mondo naturale, attraverso il linguaggio producevano fatti propriamente umani. «Le menti dei primitivi, di nulla erano astratte, di nulla assottigliate, di nulla spiritualizzate, perch'erano tutte immesse ne' sensi, tutte rintuzzate nelle passioni, tutte seppellite ne' corpi». Gli uomini antichi pensavano e parlavano direttamente per immagini, in virtù di quella disposizione metaforica che è il trionfo della fantasia. La stessa poesia omerica, che Vico intuisce essere frutto di una lunga tradizione orale, è l'incarnazione del sapere dell'uomo greco in immagini sensibili, i miti. Nell'analizzare il processo di "evoluzione" dei linguaggi umani - dal mutismo alla gestualità, dalla pittura al geroglifico all'uso dell'alfabeto -, Vico offre un saggio assai moderno di metodologia, riconosce importanza alla giusta prospettiva storica: il passato deve essere compreso mediante gli strumenti cognitivi a disposizione degli uomini del passato, e non mediante gli strumenti cognitivi odierni. Per questo, chiudendo il secondo capitolo dedicato alla sapienza poetica, Vico bacchetta ironicamente i suoi dotti colleghi, per i quali la storia delle lingue antiche va studiata non a partire dall'esperienza storica di quei popoli, ma a partire da leggi "razionali" deduttive ispirate ad Aristotele, «come se i popoli che si ritruovaron le lingue avessero prima dovuto andare a scuola d'Aristotile».

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi