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Questo articolo è stato pubblicato il 11 maggio 2012 alle ore 22:22.

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Da una soap opera degli anni ‘60 a un lungometraggio firmato Tim Burton: questa è la storia di «Dark Shadows», serie televisiva di culto (soprattutto negli Stati Uniti) ideata da Dan Curtis, tra le prime a proporre sul piccolo schermo figure soprannaturali in orari diurni.

Da sempre dichiarato fan della serie, Burton ha voluto trarne un film, in uscita questo venerdì in contemporanea mondiale, per il quale ha chiamato nuovamente al suo fianco Johnny Depp, in quella che rappresenta la settima collaborazione tra i due.

L'attore interpreta Barnabas Collins (personaggio i cui panni erano vestiti da Jonathan Frid nella serie originale), vampiro dandy ai limiti del kitsch che, dopo essere rimasto sepolto vivo in una bara per quasi duecento anni, viene accidentalmente liberato. Inizialmente entusiasta, Barnabas si ritroverà catapultato in un mondo molto diverso da quello che si ricordava: la sua, un tempo grande, proprietà è caduta in rovina e i suoi curiosi discendenti non se la passano tanto meglio.

Ambientato nel 1972 (l'anno dopo la conclusione della soap opera televisiva), «Dark Shadows» alterna sistematicamente diversi registri stilistici, dall'horror al grottesco passando per il melodramma, con esiti non sempre armoniosi.

I momenti visivamente suggestivi non mancano ma, dopo il grande successo commerciale di «Alice in Wonderland», sembra che Burton sia costantemente preoccupato di trovare il giusto compromesso tra scelte personali e ragioni di cassetta: ne risulta un film altalenante, dove il talento del regista americano emerge soltanto a sprazzi.

Tra le note positive, da segnalare un cast in ottima forma dove, oltre a un divertente cameo di Alice Cooper, svettano Michelle Pfeiffer ed Helena Bonham Carter.
Altro titolo di genere fantastico è «Chronicle», esordio alla regia di Josh Trank (in precedenza autore soltanto per il piccolo schermo), che arriva nelle nostre sale reduce da un ottimo successo ai botteghini americani.
La trama ruota attorno a tre liceali che, dopo una casuale esposizione a radiazioni provenienti da un blocco di cristallo, si accorgono di aver acquisito incredibili poteri telecinetici. Molto presto però uno di loro, Andrew, sfogherà tutta la sua repressione esistenziale accrescendo le sue abilità in un vero e proprio delirio d'onnipotenza.

Girato con la tecnica del "found footage" (la modalità narrativa in cui si aggrega, in maniera fittizia, del materiale girato con le videocamere degli stessi protagonisti), «Chronicle» rimane spesso vittima di scelte estetiche che, ormai sempre più abusate, ne limitano la freschezza e la portata innovativa.

Scritto da Max Landis, figlio del celebre John, il film vorrebbe proporre una riflessione sulle conseguenze che possono nascere dal senso di solitudine in un adolescente, ma la portata psicologica della pellicola risulta sbrigativa e poco approfondita.

Tra le nuove uscite, particolarmente atteso è infine l'ultimo lavoro di Philippe Lioret, «Tutti i nostri desideri», presentato alla scorsa Mostra di Venezia all'interno delle Giornate degli Autori.
Dopo il toccante «Welcome» del 2009, Lioret ripropone al centro della scena un gruppo di persone i cui destini verranno uniti da un'imprevedibile tragedia: tra questi vi è Claire, un giudice, giovane madre e moglie, che scopre di avere una malattia incurabile ma decide di non rivelarlo ai familiari. L'obiettivo dei suoi ultimi mesi di vita sarà quello di sostenere la causa di Celine, altra giovane madre, assillata e raggirata dagli istituti di credito con i quali si è indebitata per cercare di mantenersi. Mentre il processo andrà avanti, Claire cercherà di programmare quello che sarà il futuro dei suoi cari senza di lei.

Tratto dal romanzo «Vite che non sono la mia» di Emmanuel Carrére, «Tutti nostri desideri» segna un deciso passo indietro nella carriera di Lioret: nonostante le capacità del regista di ritrarre con umana partecipazione i suoi personaggi siano rimaste invariate, il suo stile appare meno spontaneo rispetto a quello messo in scena nella sua pellicola precedente. Se in «Welcome» infatti la narrazione procedeva senza intoppi, in «Tutti i nostri desideri» vi è più di un momento in cui si perde il coinvolgimento nelle vicende raccontate, a causa di un ampio ricorso alla facile retorica, spesso infarcita di svolte di sceneggiatura scontate e troppo costruite a tavolino.

Peccato, perché nel film non mancano momenti emotivamente sinceri, dovuti in particolare all'intensa recitazione del sempre notevole Vincent Lindon e della belga Marie Gillain, mai così brava in precedenza.

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