Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2012 alle ore 07:59.

My24

Sarebbe complicato fare un elenco dei modi in cui negli ultimi cinquant'anni sono cambiate la società, la politica, la cultura, il giornalismo. Servirebbero molti libri e forse non ne verremmo a capo comunque.

Nonostante questi cambiamenti epocali e globali abbiano tutti investito l'Italia, con molte sfumature, c'è una cosa che da queste parti non è cambiata per niente: ed è una cosa importante, per la politica, per la società, per il giornalismo, per definire quello che siamo. È il modo in cui le persone manifestano per le proprie idee.
Il 15 ottobre del 2011 milioni di persone in tutto il mondo hanno partecipato alle manifestazioni dei cosiddetti "indignati". Come sappiamo, quel giorno Roma è stata l'unica città del mondo a registrare scontri e violenze. C'è però un'altra cosa importante. Quel giorno Roma è stata anche l'unica città al mondo in cui i manifestanti – giovani, moderni, internettari - hanno deciso di puntare sul più ortodosso dei cortei e non sull'occupazione simbolica di un luogo pubblico, come era accaduto in Spagna, in Israele, negli Stati Uniti, per non parlare del Nordafrica.

Un anno prima il cosiddetto "No B. Day", la manifestazione contro Silvio Berlusconi organizzata-dal-basso, aveva percorso la stessa strada. Lo stesso vale per la manifestazione della Fiom dello scorso 9 marzo o per quelle autunnali ricorrenti degli studenti. Il discorso non coinvolge solo la sinistra: il centrodestra scelse un identico copione per la manifestazione del 2006 contro Romano Prodi.
Il corteo in Italia è un rito che si ripete sempre uguale a sé stesso, a prescindere da chi organizzi la manifestazione e da quali siano i suoi scopi: spesso anzi quegli scopi sono indistinguibili e i temi dei cortei diventano confusi e intercambiabili. Il format è uguale da decenni.

Si fissa da qualche parte il raduno – anzi, il "concentramento" - e per le manifestazioni nazionali solitamente lo si fa a Roma, in piazza della Repubblica. Si parte e dopo qualche ora di slogan, cori e interviste ai politici si arriva al palco, dove solitamente il segretario del partito o del sindacato aspetta di fare il suo discorso in orario comodo per i tg. Il luogo di arrivo dipende dalle dimensioni della manifestazione: una cosa media in piazza del Popolo; una grande in piazza San Giovanni; una grandissima al Circo Massimo. Durante la manifestazione, solitamente, la si spara grossa sui numeri: si parla di uno, due o addirittura tre milioni di manifestanti, sebbene la geometria abbia chiarito da tempo che al Circo Massimo entrano al massimo 300.000 persone e a San Giovanni 150.000. Poi si va via, in stazione e da lì a casa. Fine della manifestazione. E fine anche di tutto il resto, solitamente.

A parte qualche piccolo tentativo con i flash mob, o l'occupazione del Teatro Valle a Roma, il crescente mondo dell'attivismo politico online non è ancora riuscito a scalfire l'immutabilità della manifestazione di piazza. Partiti e sindacati sembrano non porsi affatto il problema. Il format tradizionale ha indubbiamente i suoi pregi: concentra gli sforzi in un giorno solo, consegna agli organizzatori un piccolo – sempre più piccolo – capitale politico e delle belle foto, permette a tutti di tornare a casa con l'idea di essere stati utili a qualcosa. Non mancano però i difetti. Nessuno dei vantaggi di cui sopra è in primo luogo lo scopo per cui la manifestazione è stata indetta. Il caos di un corteo per le vie della città è potenzialmente pericoloso, come mostra quanto accaduto il 15 ottobre del 2011. La ritualità ossessiva del meccanismo ha svuotato completamente il significato delle proteste. Ma esiste oggi un modo di manifestare che sia adeguato ai tempi, che sia efficace, che non sia esattamente lo stesso di cinquant'anni fa?

Per trovare una possibile risposta non serve andare molto lontano: quanto accaduto nell'ultimo anno fuori dall'Italia mostra infatti una strada ben precisa. Non convocare più grandi masse ma piccoli gruppi capaci di mobilitarsi a lungo. Non cercare il successo di un pomeriggio ma puntare sul medio lungo-periodo. Non puntare sulla prova di forza bensì su quella della perseveranza. I vantaggi di questo approccio sono evidenti. Trecento persone che occupano un parco pubblico per un mese otterrebbero più attenzione, e più a lungo, di trecentomila persone che sfilano per qualche ora e poi spariscono. Le "infiltrazioni violente" diverrebbero praticamente impossibili. Forse si riuscirebbe persino a stemperare il manicheismo tipico di ogni manifestazione di piazza, diluendo le discussioni, placando gli animi, organizzando confronti aperti al pubblico e agli indecisi. Naturalmente ci sono anche i lati critici. I giornalisti faticherebbero un po' di più. Agli organizzatori sarebbe richiesto di mettere da parte un po' di narcisismo, e forse l'etichetta stessa di organizzatori. Tutti dovrebbero rinunciare all'idea della manifestazione di piazza come rito collettivo di rievocazione storica, come santa messa e adunata rassicurante. E fare qualche sacrificio in più, producendo un impegno all'altezza dell'importanza delle proprie istanze.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi