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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2012 alle ore 08:42.

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Verrebbe da urlare evviva, senonché è lo stesso saggio dell'Economist a mettere in guarda dalle previsioni perentorie, spesso sbagliate, fatte nel passato. Da quelle di chi diceva di essere certo che non ci sarebbero state più guerre, a pochi mesi dallo scoppio della Prima guerra mondiale, a quelle di chi scommetteva su un fortissimo rialzo dei mercati azionari americani una settimana prima del crollo della Borsa di New York del 1929.
Nessuno, ovviamente, può essere sicuro del futuro, ma gli analisti della grande famiglia allargata dell'Economist sostengono che valga la pena tentare di immaginarselo, sia pure con raziocinio, anche perché prevedere che cosa accadrà nel 2050 è più semplice che anticipare gli eventi del prossimo anno.

Alcuni aspetti importanti dei prossimi decenni, sostengono i curatori del libro, sono facilmente prevedibili. La demografia, innanzitutto. Ci sono voluti 250mila anni prima che la popolazione mondiale raggiungesse quota un miliardo, nel 1800. Sono trascorsi invece soltanto una dozzina d'anni per aggiungere l'ultimo miliardo di abitanti del pianeta, che ha portato il totale, nell'ottobre 2011, a oltre sette miliardi. Nel 2050 saranno nove miliardi. Questi sono cambiamenti su grande scala e a velocità incredibili. Megachange, appunto.
Le tecnologie e la globalizzazione in pochissimo tempo hanno cambiato il mondo, incidendo in modo sensibile sulla vita della gente, sulle politiche delle nazioni, sulle strategie delle imprese, sulle prospettive del pianeta. Il libro prova a individuare le tendenze che stanno trasformando il pianeta. Il metodo scelto dalla redazione dell'Economist è partire dal passato, in modo da fornire ai lettori un'idea chiara della natura e della portata del cambiamento. I risultati sono spesso sorprendenti. Anthony Gottlieb prevede che la religione avrà un peso inferiore nel mondo in via di sviluppo, nonostante ultimamente la sensazione sia opposta. Zanny Minton Beddoes assicura che nei Paesi ricchi le diseguaglianze economiche diminuiranno.

Nel 2050 la Cina crescerà soltanto del 2,5 per cento, dice Simon Cox, mentre l'Asia tornerà a pesare, come nel 1820 e nei secoli precedenti, per più di metà dell'economia mondiale. Questo però non significa che l'inglese perderà il ruolo di lingua franca o che gli scienziati cinesi guideranno il mondo, a meno che il regime di Pechino dovesse aprirsi fino ad accettare quella piena libertà intellettuale che è precondizione per la circolazione delle idee e delle scoperte scientifiche. Edward Lucas sostiene che nei prossimi quarant'anni la democrazia farà passi da gigante nei Paesi autoritari e arretrerà in quelli liberi. Se saremo fortunati le nuove tecnologie trasformeranno gli Stati in fornitori di servizi ritagliati specificamente sulle esigenze dei cittadini, così come oggi gli algoritmi di Amazon sono capaci di individuare i gusti letterari e musicali del cliente. Potrebbe andare peggio, scrive Lucas proiettando nel futuro una delle grandi ossessioni dell'Economist: Silvio Berlusconi. Se saremo sfortunati, scrive, potremmo invece essere governati da politici a metà tra Berlusconi e Putin, cinici, bari e manipolatori dei media. Insomma, male che vada, nel 2050 sarà esattamente come adesso.

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