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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2012 alle ore 08:22.

È uscito il 18 maggio nelle nostre sale (e poi in dvd con Feltrinelli Real Cinema) ma in quelle di Cannes, inserito nella selezione ufficiale del Festival, fuori concorso, è arrivato un giorno prima. Roman Polanski: A film memoir, testimonianza umana e cinematografica che colpisce, pur nelle sue imperfezioni, ha peraltro anche un pezzo d'anima italiana. Tra i coproduttori, infatti, risulta la Casanova Multimedia di Luca Barbareschi, che dal regista è stato diretto nello spettacolo teatrale Amadeus, nel 1999.
Il film è un viaggio nella vita e soprattutto nelle ferite in uno dei più talentuosi, apprezzati, tormentati cineasti della storia: come solo con un amico si può fare, grazie al suo interlocutore- Andrew Braunsberg (a volte fin troppo ingombrante)- entriamo impietosamente nella sua vita, ricordandone i momenti più dolorosi. Il documentario, artisticamente parlando, è convenzionale come la regia di Laurent Bouzerau, persino povero: tutt'altra cosa, però, sono i contenuti, perché quest'uomo da sempre in fuga e quindi sfuggente ha sempre dovuto subire la condanna dell'essere giudicato attraverso lenti deformanti, che fossero media invadenti o giudici ottusi.
Si parte, a gamba tesa, con l'ironica lettura della lettera d'invito del Festival di Zurigo e dell'assegnazione del premio alla carriera che avrebbe voluto tributargli. Per convincerlo, gli organizzatori scrivono che vorrebbero rendere il suo soggiorno "emozionante e stimolante". Andrew e Roman, amici da quasi cinquant'anni, ridono amaro. Il regista, al suo atterraggio a Zurigo, infatti, fu arrestato dalle forze dell'ordine svizzere in ossequio al procedimento legale che alla fine degli anni '70 - per aver fatto sesso con una minorenne - lo costrinse ad abbandonare gli Stati Uniti.
Da qui parte il viaggio nell'odissea di Roman Polanski, un uomo a cui la vita ha riservato tragedie che avrebbero abbattuto un esercito: l'Olocausto che gli porta via la madre (incinta, per altro: Il pianista, ma anche Oliver Twist sono "ferocemente" autobiografici), che lo tiene lontano dal padre per anni e che farà fuggire in Francia la sorella; la strage in cui Manson e la sua banda uccideranno la sua amatissima moglie Sharon Tate insieme ad altre quattro persone (anche lei era incinta, all'ottavo mese: lui era a Londra per finire una sceneggiatura, lei era partita pochi giorni prima dall'Inghilterra perché il figlio nascesse nell'amata e poi odiata America); il processo per un reato sessuale strumentalizzato da molti. E infine l'arresto di due anni fa, le10 settimane in un carcere di massima sicurezza e i mesi ai domiciliari dove questo documentario nasce e si sviluppa.
Piace di questo racconto un po' didascalico l'emergere di alcuni dettagli molto poetici: il piccolo Polanski che impara a leggere con i sottotitoli dei film o il suo stupore puro e infantile nel raccontare come una radio lo portò in un mondo magico, valgono da soli il prezzo del biglietto. Così come scoprirne l'ottimismo, capire che le tragedie le ha combattute perché ha saputo apprezzare anche le sue felicità, dai film più riusciti ("sulla mia lapide vorrei poggiassero Il Pianista", "Cul de Sac è uno dei film di cui vado più fiero") all'amore normale e pieno con la consorte e sodale con cui divide la vita da 25 anni, Emmanuelle Seigner. I suoi momenti di commozione, i suoi sorrisi malinconici, l'impegno e l'automatismo con cui mostra come si fa un sacchetto di carta (attività a cui i tedeschi lo costrinsero durante la guerra), il racconto da regista puro dei momenti clou della sua vita sono regali rari, così come i pezzi di film che commentano la chiacchierata.
Polanski qui unisce riserbo e generosità, eleganza e spontaneità: anche in un'opera in cui è attore "passivo", è lui a riempire e dirigere la messa in scena. La sua parola, le sue pause, "chiamano" i movimenti di macchina, i tagli, persino le domande del suo affettuoso inquisitore.
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