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Questo articolo è stato pubblicato il 20 maggio 2012 alle ore 08:17.

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Faceva un certo effetto vedere sullo stesso palcoscenico del l'Elfo Puccini di Milano, a una sola settimana di distanza, l'iper-formale Principe di Homburg di Cesare Lievi e l'iper-destrutturato Don Giovanni, a cenar teco di Antonio Latella: un grande spettacolo, quest'ultimo, che fa a meno della scenografia, fa a meno di un testo definito – il copione assembla pezzi di autori diversi – e forse fa addirittura a meno di Don Giovanni, ridotto qui a un'entità meramente simbolica. Eppure allo spettatore arriva tutto ciò che deve arrivare. Con una trovata geniale, la sua messinscena si apre col protagonista bambino che in abiti settecenteschi, attorno a un tavolo in miniatura, manovrando dei piccoli dinosauri di plastica gioca al teatro con un'amichetta, mentre un padre autoritario lo chiama per la cena. E si chiude con gli stessi personaggi ormai invecchiati, irrigiditi in una macabra cena di famiglia: insomma, in questa chiave Don Giovanni pare trascendere il mitico seduttore della tradizione, e diventa emblema della vita umana tout court, coi suoi vizi e le sue contraddizioni.
In mezzo c'è uno stratificato intreccio di citazioni, da Molière a Da Ponte al Don Giovanni o l'amore per la geometria di Max Frisch, sfiorando De Sade, Fassbinder e persino Jacques Brel: ma lo scopo dell'operazione drammaturgica, curata da Latella con Linda Dalisi, non è di dare forza alla vicenda, è piuttosto di scomporla, di trasformarla in un acre dibattito sul dongiovannismo, che ha i suoi momenti più felici quando si svolge apertamente, in piena luce, e che inevitabilmente si trasforma in una riflessione sugli strumenti del teatro.
I personaggi, vestiti casual, si aggirano sulla ribalta vuota, illuminati a tratti da un proiettore sistemato su una sedia a rotelle, concreta metafora dello svelamento degli artifici della finzione, che non esclude tuttavia momenti di fortissima tensione emotiva: se Don Giovanni è l'archetipo dell'ingannatore sempre in fuga dal sentimento, che sembra prediligere le astrazioni geometriche per sfuggire alle proprie debolezze, a incarnare le passioni vere sono solo gli abitanti di un bordello, le puttane e un Pierrot-travestito.
Ormai dotato di un suo stile inconfondibile, di un suo modo personale di smontare e rimontare i linguaggi della rappresentazione, Latella firma una regia urticante, a tratti quasi parodistica, che però trasmette idee, pensiero, suggestioni, grazie anche all'ottima prova degli attori, fra cui spicca lo Sganarello di Massimiliano Loizzi. Il finale è un piccolo capolavoro: a cenar teco non c'è la statua del Commendatore, c'è il padre demente, arrichito sulla sedia a rotelle, e non ci sono le fiamme infernali, ci sono solo quei vegliardi a tavola: l'inferno è in noi, nel gelo della nostra realtà quotidiana.
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Don Giovanni, a cenar teco, regia di Antonio Latella, visto all'Elfo Puccini di Milano

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