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Questo articolo è stato pubblicato il 20 maggio 2012 alle ore 08:15.

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«Non si intende di certo fare il processo alla "tecnostruttura" del Fondo... Ma è altrettanto indubbio che la predominanza manageriale svuota praticamente il potere dei membri». Con queste parole, estratte dalle Lezioni di politica economica del 1984, Federico Caffè, riferendosi alla governance del Fondo monetario internazionale, poneva l'accento su una «discrezionalità estremamente discutibile» nell'interpretazione degli articoli dello Statuto che aveva permesso, agli organi amministrativi del Fondo, di sottrarsi al controllo politico dei Paesi membri. Da queste «forzature interpretative» era scaturita una gestione eccessivamente tecnocratica dell'Istituzione, con la quale, la volontà politica dei Paesi membri e soprattutto le esigenze oggettive dei popoli, venivano marginalizzate e rese subalterne ai fini tecnici dell'ente. Un «pragmatismo interpretativo» in virtù del quale il «Fondo si è discostato in misura notevole dal funzionamento previsto dai suoi ideatori» finendo per essere e sembrare un'entità indefinita dalla quale promanano «segrete decisioni di sconosciuti burocrati internazionali», «simboli senza volto dell'ordine economico mondiale».
Concetti che potrebbero essere ben trasposti alle problematiche di oggi, carne viva delle questioni centrali negli ultimi anni, e che Caffè ha sollevato oltre venticinque anni fa, conferma di una prospettiva di pensiero e lungimiranza di analisi da parte dell'economista italiano. Oggi, queste preoccupazioni appartengono alle gettonatissime analisi del Nobel Joseph Stliglitz e di economisti del calibro di Roberti Gilpin, ma il professore pescarese le inquadrò con largo anticipo.
La sua tragica e misteriosa scomparsa, avvenuta a Roma venticinque anni fa, nell'aprile del 1987, ha, forse, ingiustamente offuscato presso il grande pubblico dei non addetti ai lavori, l'opera del professore della Sapienza, sicuramente una delle più alte espressioni del pensiero economico italiano. Guida di generazioni di economisti, a partire dal presidente della Bce, Mario Draghi, del governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, e di studiosi come Marcello De Cecco, Giuseppe Ciccarone, Enrico Giovannini, Ezio Tarantelli e tanti altri.
Se quanto Caffè scriveva sul Fondo monetario internazionale pone problemi di viva attualità ancor più impressionanti sono le sue considerazioni sul rapporto fra finanza ed economia reale, anticipatrici di quello che molti, studiosi e cittadini, pensano in questo momento. «Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei Paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio», scriveva Caffè, addirittura nel 1971, sul «Giornale degli Economisti», «che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi».
Una visione coerente con quella dottrina di cui il professore è assertore e che pone il tema dell'economia del benessere, capace di guardare oltre una mera dinamica del profitto. Perché pur riconoscendo il valore del mercato e la sua centralità, l'obiettivo di un'efficace politica economica è pur sempre la felicità degli individui. Gli scritti del 1971 sul mercato finanziario diventeranno oggetto di discussione solo nel 1976 con il volume Un'economia in ritardo. Resta intatto il valore delle sue affermazioni: «Un rilievo del genere non trae origine da fatti episodici o da insufficienze istituzionali attribuibili a carenze legislative. Si tratta di una costatazione originata dalla persistenza evidente, nell'ambito delle strutture finanziario-borsistiche, di un capitalismo aggressivo e violento, che non sembra avere nulla in comune con lo "spirito di responsabilità pubblica" rilevabile come componente di una moderna strategia oligopolistica nell'ambito dell'attività produttiva industriale».
Consapevole che queste analisi non dovessero restare chiuse nell'ambito dell'accademia ma trovare un pubblico più diffuso, Federico Caffè, negli anni successivi, le sintetizzò in alcuni interventi giornalistici tra i quali un articolo dal titolo "Praticoni pittoreschi", pubblicato su «Il Manifesto» del 19 luglio 1981, dove insisteva sulla pericolosità di certi speculatori improvvisati.
La facoltà di Economia della Sapienza, la sua "casa", cui dedicò anni di appassionato insegnamento lo ricorderà nei prossimi giorni (giovedì 24, per iniziativa della Presidenza e del Dipartimento di economia e diritto) con l'intervento introduttivo del governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, e la "Lezione Federico Caffè" del presidente della Bce, Mario Draghi, «Politica economica, crescita e welfare: un percorso per l'Europa».
Le biografie dei grandi economisti, da Adam Smith, a Vilfredo Pareto, a John Maynard Keynes, ci dimostrano come l'economista debba ampliare lo spettro della sua visione oltre il necessario rigore delle teorie. La giornata in ricordo di Federico Caffè sarà, probabilmente, l'occasione per rimarcare l'attualità del pensiero di questo studioso, la sua capacità di individuare e circoscrivere alcuni nodi cruciali del nostro tempo, insoluti e nei quali ci dibattiamo.
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