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Questo articolo è stato pubblicato il 20 maggio 2012 alle ore 08:14.

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Cominciamo là dove la storia si avvia alla conclusione, sul vapore Moltke salpato da Copenaghen ai primi di gennaio del 1912 e diretto a New York. Tra i passeggeri di prima classe, il danese Herman Bang, cinquantacinquenne autore di racconti, regista di teatro, giornalista, personalità inquieta e oggetto di polemiche per la sua esplicita omosessualità. Ha pianificato il viaggio perché sia un giro del mondo di letture, dagli Stati Uniti al Giappone all'Egitto e quindi di nuovo in Europa, l'Italia ultima tappa. In realtà è l'ennesima fuga dalla sua terra, piena per lui di contrasti e incomprensioni, l'ennesima ricerca di un altrove che lo confermi sulle sue qualità. Herman Bang è un uomo difficile, che ha collezionato in Patria stima e disapprovazione, simpatia e sospetti. La sua voce d'artista ha un timbro inconfondibile, col respiro breve del racconto più che del poderoso impianto romanzesco, ma è una voce interessantissima. Se ne sono accorti i nomi migliori della cultura europea tra Ottocento e Novecento, scrittori scandinavi suoi contemporanei, quali Ibsen e Jonas Lie, ma se ne accorge con ammirazione anche Thomas Mann, che legge nell'originalità della prosa di Bang una inusitata fratellanza, proprio lui che, invece, gestisce da maestro la misura del grande romanzo.
Ma torniamo al transatlantico su cui Bang compie il viaggio del destino: nel tempo sospeso della navigazione scrive le sue ultime pagine, tra racconto e cronaca di una tempesta sull'oceano. Aveva concordato con il quotidiano «København» un reportage di viaggio e lo costruisce cogliendo a volo fisionomie e stati d'animo giocati sulla combinazione alchemica di fiducia nell'ingegneria navale e di paura che la furia delle onde e del vento scatena.
Tutto questo gli dà il destro di catturare emozioni e immagini ed elaborarle sull'impressionismo della parola in cui Bang è maestro. È la sua caratteristica stilistica, tessuta e giocata sulla coloritura delle voci che si avvicendano sulla pagina, preoccupata di cogliere l'attimo più che di narrare. Questa formula si ritrova soprattutto nei due romanzi La casa bianca e La casa grigia, due opere brevi di impianto quasi teatrale, in cui l'uso preponderante del dialogo porta il lettore alla comprensione di un intero attraverso il dettaglio e il sottinteso. In effetti il teatro, che a Bang era molto caro e dove come attore fallì al limite del ridicolo, interagisce con tanta parte delle sue storie, nella struttura come nelle suggestioni di ambiente.
Poiché è lui stesso per il suo tempo e per la società danese un uomo al limite dell'accettabile, descrivere situazioni di confine diviene per lui un esercizio di stile e una sfida. I quattro diavoli, calibratissimo romanzo breve ambientato nel mondo degli acrobati del circo, è un drammatico quadro di vite di margine, un controcanto al leit motiv della borghesia di cui Bang avverte assillante la censura. Ma ne avverte anche i retroscena devastanti e mascherati dalla forma, ne sente la decadenza che tocca uomini e cose: in La Casa grigia, citazione del palazzo di Copenaghen in cui era vissuto il nonno di Bang, severa figura di medico di corte, si respira aria di declino, seppure celato da infingimenti e mezze verità. Non si tratta solo dei bilanci economici e morali di una famiglia troppo per bene per riconoscersi apertamente in defaillance; qui si fa strada anche il compianto di una società ferita e offesa.
Le due guerre dello Schleswig-Holstein, nella seconda metà dell'Ottocento, consegnando alla Germania la parte continentale dello Jutland, segnano il disagio della Nazione danese che, col bilancio di una sanguinosa sconfitta, conta i suoi morti materiali e morali. Di questo conto è lucido testimone l'autore, e lo introduce come un convitato di pietra in alcuni passaggi di La casa grigia. Ma sono i silenzi e le piccolezze del privato, vedi La casa bianca o Lungo la strada, i soggetti preferiti di Bang, che a loro, a interni di case e scorci di vite quotidiane, riconduce anche il dramma della politica e la caduta di una classe sociale.
A ragione Luca Scarlini (che sarà protagonista con Francesca Fracassi, del dramma Quando l'amore muore, il prossimo 25 giugno nell'ambito del "Festival MIX" a Milano), nella Postfazione all'edizione Iperborea de La casa grigia parla di Giardino dei ciliegi, giocato, se lo avesse in mano Strehler, più sul nero che sul bianco della sua storica edizione. A Bang, quasi come a Cechov, piaceva raccontare per figure minori e per piccoli passi di infelicità, a volte visti con amara ironia, ma per lo più partecipati e sentiti come sconfitte universali.
Gli Stati Uniti, dove Bang giunge atteso con qualche imbarazzo dalla comunità danese di New York, sono il termine del suo viaggio terreno: è solo, sul treno che da New York va verso la costa occidentale, e mentre guarda smarrito l'immensità del Paese la cui giovane energia lo attrae e lo spaventa, scivola nel sopore e perde coscienza. La notte del 28 gennaio 1912 lo scrittore viene trasportato all'ospedale di Ogden, nello Utah, dove alle sei del mattino muore. La fine della sua vita, lo sgomento di questa terra straniera sono raccontati da Klaus Mann, che ne ha ricostruito e in parte immaginato l'ultimo atto, nel Viaggio al termine della notte. Herman Bang, titolo di céliniana memoria in uscita da Iperborea insieme alle pagine finali del danese, cioè Il transatlantico e Il biglietto di ritorno, e la Lettera all'amica Betty Nansen, raccolti con il titolo l'Ultimo viaggio di un poeta.

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