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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2012 alle ore 10:45.

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A quanto pare il 2012 rischia di passare alla storia come l'anno in cui morì la disco music degli anni Settanta: a tre giorni dalla scomparsa di Donna Summer, già regina dello Studio 54, all'età di 62 anni se ne va anche Robin Gibb, la voce (in vibrato pulito) dei Bee Gees, la band anglo-australiana che incise la colonna sonora manifesto de «La febbre del sabato sera».

L'ultimo del gruppo. Raggiunge idealmente il gemello Maurice, bassista cantante della band morto nel 2003, e il fratello minore Andy, membro «esterno» del gruppo che se n'è andato nel 1988. A reggere il testimone resta ormai soltanto Barry, il più anziano oltre che mente musicale e falsetto dei quattro. A rendere noto il decesso di Robin, la notte scorsa, sono stati i familiari. Era stato operato per un tumore 18 mesi fa quando i medici gli diagnosticarono un cancro all'intestino e al colon. Tornato in pubblico a febbraio, il musicista nativo di Douglas aveva detto di essere in «grande miglioramento». Eppure da quel momento le sue condizioni di salute si sono aggravate e poche settimane fa Gibb è entrato in coma per una polmonite da cui, negli ultimi giorni, sembrava lentamente essersi ripreso. «Anche grazie all'ascolto delle sue canzoni», secondo i tabloid britannici. Quel patrimonio di canzoni, in ogni caso, resta.

Inglesi «d'esportazione». Particolarissima la parabola artistica dei fratelli Gibb: erano inglesi dell'Isola di Man, trascorsero l'infanzia a Manchester, dove impararono a cantare «a cappella» nel più classico dei cori scolastici, ma si diedero definitivamente alla musica soltanto a seguito del trasferimento nell'emisfero australe, a Redcliffe Australia. È qui che Barry, Robin e Maurice si ritagliano una prima carriera da terzetto vocalico della provincia dell'impero, con l'album d'esordio soft pop «Bee Gees sing and play 14 Barry Gibb songs» datato 1965 e destinato al solo mercato australiano. Tutt'altro che un successo. Un anno più tardi ci riprovano con «Spicks and spacks», disco profondamente influenzato dallo stile beatlesiano impereante. Capiscono una cosa: restando in Australia non sarebbero mai andati da nessuna parte. E così decidono di tornare in patria a cercare fortuna.

Il periodo pop. Prima della loro partenza, papà Hugh indirizza un loro nastro nientemeno che a Brian Epstein, menager dei Beatles. Quest'ultimo, a quanto pare, gradisce e lo gira al produttore Robert Stigwood che, dopo averli sottoposti a un'audizione, ottiene loro un contratto di cinque anni per la Polydor. Nel '67 ecco allora un «nuovo» album d'esordio, stavolta a tiratura internazionale: si intitola «Bee Gees 1st» e contiene hit destinate a durare come «Holiday», meravigliosa prova per Robin, e «To love somebody». Nella Swinging London c'è posto insomma anche per i fratelli Gibb, le loro armonie vocali e il loro approccio easy listening al pop sinfonico. Innumerevoli i brani di successo incisi tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Seventies: da «Words», altro pezzo di bravura di Barry, a «I've gotta get a message to you» (ve la ricordate «Questo disco è il mio pensiero d'amore»?), in cui Robin sale in cattedra con un drammatico cantato; da «First of May» (perché un po' d'impegno, fosse pure di facciata, in quel periodo ci voleva) a «Run to me», ballata strappalacrime realizzata senza più l'ausilio di Stigwood.

La svolta disco. Si sa che i tempi cambiano e, con loro, pure usi e costumi musicali. Chi è bravo cambia pelle, chi no resta a casa. Nel '76 i Bee Gees colgono al balzo la palla a specchi della disco music: esce «Children of the World», un album che si apre con la travolgente «You shold be dancing». Per il regista John Badham, impegnato nella realizzazione di un film sulla generazione danzereccia dei mid Seventies è un colpo di fulmine: i Bee Gees diventano la spina dorsale della colonna sonora de «La febbre del sabato sera», con il marchio di fabbrica di «Stayin Alive» e «Night fever» sui quali imperversa il ciuffo imbrillantinato di John Travolta. Il successo è infinitamente superiore a quello del periodo pop e, quando si tratta di realizzare un musical sul concept di «Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band», a Hollywood non ci pensano su due volte ad affidare un ruolo di punta ai fratelli Gibb.

Reunion possibili e impossibili. Ciò che avviene dopo i Disco Days è poca roba per meritare menzione: lunghi periodo di silenzio interrotti da ritorni non proprio imperdibili. Robin, tra tutti i fratelli, a quanto pare era quello che spingeva di più per questi ultimi. Una cosa è certa, cari inguaribili nostalgici di camicie a fiori e pantaloni a zampa d'elefante: una reunion, seppure parziale, dei Bee Gees non sarà più possibile, in barba a quanto lo stesso Robin annunciò tre anni fa. Gli eroi di quella generazione godereccia e spendacciona se ne vanno uno dopo l'altro, in tempi in cui di capitali da dilapidare il sabato sera non ce ne sono rimasti molti. E gli eccessi non c'entrano: se ne vanno per gli acciacchi della vecchiaia.

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