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Questo articolo è stato pubblicato il 27 maggio 2012 alle ore 08:19.

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Quale è il rapporto tra jazz e scrittura? In che misura il jazz, la più grande rivoluzione musicale del '900, con buona pace di Adorno (che in essa vedeva solo marce militari e alienazione industriale) ha influenzato gli scrittori (e viceversa)? Questi interrogativi me li ha suscitati Thelonious Monk. Storia di un genio americano, di Robin D.G.Kelley (minimumfax), una densa biografia – un po' romanzo comico-picaresco e un po' storia sociale degli Stati Uniti – che però si riduce fatalmente a un elenco di concerti lungo 800 pagine.
Mi chiedo se ci sia un modo diverso di raccontare un musicista jazz, per giunta così estroso e anarcoide. Tenterò di dare una risposta ma prima vorrei segnalare almeno un paio di episodi dal libro. Alla fine del '59 Monk va ad ascoltare Ornette Coleman, inventore del free jazz, e commenta «Diamine, queste cose io le facevo 25 anni fa…» O nel 1965, poco tempo dopo l'assassinio di Malcolm X «Non mi sono mai interessati quei musulmani, non ho dovuto cambiare nome, il mio era già strano abbastanza…». In queste battute si condensa il ritratto del musicista, un pianista "da vedere" come Keith Jarrett o Glenn Gould, con le sue stravaganze idiosincratiche e spettacolari, un "Giano bifronte", precursore del moderno e innamorato dell'antico stile pianistico stride.
Ma la letteratura americana si è accorta di lui? Monk fu molto amato da scrittori come Ralph Ellison e Langston Hughes, ed ebbe una influenza decisiva su LeRoi Jones e su vari artisti visivi, che lo assunsero come equivalente musicale dell'espressionismo astratto. Non so quanto l'amore fosse ricambiato. Non sempre un musicista d'avanguardia ha gusti avanguardistici. Se Parker leggeva Baudelaire, Kerouac preferiva all'eversivo bepop (che pure apprezzava) l'orchestra di Count Basie. E allora proviamo a capire meglio la relazione tra i due linguaggi, anche compiendo un veloce ed "enciclopedico" excursus attraverso il secolo scorso.
Per "letteratura jazz" (jazz fiction) propongo di intendere non tanto quella che parla di locali fumosi e musicisti strafatti, e che ci propone le mitologie più o meno decadenti del genere, quanto quella che tenta di assimilare in sé un elemento di rischio – proprio di questo genere musicale –, ed è aperta a parodia, citazione, gioco, impurità (Savinio: «il rumore si mischia al suono»), sperimentazione inesausta. Non dovete necessariamente immaginare a oltranzismi informali: la libertà dell'improvvisazione è disciplinata. Per il sassofonista Sonny Rollins si può suonare anche fuori tempo ma senza rinunciare mai alla pulsazione di fondo (perfino il funambolico Perec nella "implosione" del free riconosceva una dialettica di libertà e vincoli). Il futurismo poi era attratto dall'energia della musica "sincopata", però il jazz non riuscì a liberarlo dalla mancanza di autoironia.
Piuttosto l'improvvisazione jazzistica evoca qualcosa di non troppo distante dallo "stile dell'anatra" (Raffaele La Capria), che nasconde la fatica ma pure ce la fa intuire. Qualche autore ha voluto riprodurre nel proprio stile letterario i giochi fonico-ritmici del jazz – poliritmia, deviazioni dal tempo principale, etc. –, ma si tratta di esperimenti non propriamente esaltanti, e ovviamente confinati alla poesia (penso ad Allen Ginsberg). Diverso il caso dei tre puntini di sospensione della prosa céliniana, che danno alla sua pagina una vibrazione emotiva e una scansione ritmica speciale, configurando secondo qualcuno una "scrittura jazz" (ma non abuserei di questo tipo di metafore). Mentre fanno storia a sé la produzione del "Rinascimento di Harlem" e poi tutta la letteratura afro-americana, fino a Toni Morrison, espressione organica di un universo spesso tenuto ai margini (i componimenti di Hughes furono musicati da Charlie Mingus).
Ma gli scrittori più sensibili nei confronti dello "spirito" del jazz insistono sul rischio, sulla instabilità come elemento fondante del genere (il «suo senso continuo di pericolo imminente», Bontempelli) perché l'improvvisazione aderisce a una forma sempre provvisoria, non rifinita (di ogni brano registrato esistono innumerevoli versioni o "take"). Per Coltrane tutte le sue esecuzioni erano delle "prove". E se Parker, nel bel racconto di Cortazar Il persecutore, dirà dopo un assolo «Questo l'ho suonato domani», il jazz è in realtà come la poesia: tutto vi accade nel presente. L'esecuzione di un brano è un istante irripetibile, in cui si concentrano passato e futuro. È in un certo senso l'utopia in tempo reale! E, come spiega il vibrafonista Stefon Harris (vedi Ted.com), in questo genere musicale l'errore non esiste: il pianista fa una nota dissonante, dunque "sbagliata", ma non è più un errore nel momento in cui un altro musicista risponde a quella nota e sviluppa l'armonia del "pezzo". Nel jazz l'errore è un'opportunità, così come suggeriscono le grandi tradizioni sapienziali dell'Oriente. Inoltre il jazz è legato ad una dimensione fortemente narrativa, affabulatoria e dunque comunitaria: per Ellison lo storytelling di cui è imbevuta la letteratura americana viene da lì. Il sassofonista Lester Young era incantato dalle molte storie che trovava in un fraseggio musicale… In ciò somiglia a una avanguardia "popolare", a una rivoluzione formale che però non rinuncia alle radici vernacolari (perfino il bebop si ballava nei locali!). Per Pat Metheny il jazz deve comunque restare una "musica di strada", leggiamo in Come si ascolta il jazz di Ben Ratliff, sempre minimumfax. L'editore romano ha dedicato una parte della sua collana «I sotterranei» a biografie e autobiografie dei protagonisti del jazz (Armstrong, Baker, Ellington, Basie, Gillespie, Coltrane…). Possiamo gustarle come documenti spesso coloriti di un'epoca e di una cultura, così come sprofondiamo nel racconto di Kelley su Monk, ricco di saporosi aneddoti. Ma sapendo che l'unica vera autobiografia autorizzata di un musicista jazz è quella – involontaria, sempre franante, incompiuta – che lui ha gelosamente deposto dentro la propria musica.

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