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Questo articolo è stato pubblicato il 28 maggio 2012 alle ore 17:55.

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John Doe, l'antieroe che odia i suoi lettoriJohn Doe, l'antieroe che odia i suoi lettori

Ricordo il sorriso di Sergio Bonelli quando gli parlai di John Doe. Ammise di leggerlo e apprezzarlo - «ma è giusto che esca con un'altra casa editrice, non è nella nostra linea editoriale» -, conosceva bene e stimava moltissimo i suoi sceneggiatori Lorenzo Bartoli e Roberto Recchioni. Il primo è passato per Martin Mystere, il cinema e tre libri (in due di essi s'è inventato Leo Kaminski, detective come non ne fanno più), il secondo, tra le tante cose, ha come biglietto da visita l'aver scritto forse l'unico numero di Dylan Dog che potrebbe competere con quelli storici, il capolavoro Mater Morbi.

Chi scrive è sempre stato un bonelliano, ma nove anni fa fu attratto in edicola da una faccia da schiaffi e uno strano titolo: La morte, l'universo e tutto quanto. Divenni un fan sfegatato di quell'antieroe che conquistava donne solo per ferirle - non solo nei sentimenti -, di quell'affascinante bastardo che lavorava nientemeno che per la Trapassati Inc., società con cui la Morte regolava i conti con il mondo, seguendo le vie burocratiche e manageriali di una qualsiasi multinazionale. John Doe era una sorta di Ceo di questa società, colui che faceva rispettare tempi di consegna e quadrare i conti. Geniale, soprattutto quando reagirà a un "falso in bilancio" con una collera dovuta, soprattutto, alla deontologia professionale. Dopo anni di eroi tutti d'un pezzo - in Bonelli solo Nathan Never ha saputo portare la perdita dell'innocenza in una serie regolare - ecco che arriva uno che semina morte e lo fa con orgoglio.

In seguito il nostro, cavalcando per ben quattro stagioni, è diventato la Morte stessa e persino Dio. Non s'è fatto mancare nulla, insomma, e qui sta la grandezza di un fumetto che ha voluto e saputo demolire ogni schema. Affezionarsi a un cattivo, egoista e strafottente, è sembrato subito naturale, così come accettare le sfide dei due sceneggiatori, dalla discontinuità dei disegni - hanno puntato su talenti giovani e "diversi" (ma copertine e studi dei personaggi sono del grandissimo Massimo Carnevale) - all'entrata a gamba tesa nella trama dei suoi stessi scrittori e poi persino dei lettori. Metafumetto, un rischio enorme: ma questa serie i trabocchetti se li va a cercare, per camminare sul filo di essi, come acrobati della nona arte. Per far capire meglio con chi abbiamo a che fare, le famigerate Alte Sfere, nemici storici di John, sarebbero i lettori stessi.

E non è neanche l'ultimo o unico colpo di scena, visto che John Doe, a differenza di tutti gli altri personaggi di successo delle nuvole parlanti tricolori, se ne va. Chiude, al 99imo numero. Non per calo di vendite o d'interesse, anzi. Ma proprio perché ama stupire, spiazzare, portarti dove non ti aspetti. Bartoli e Recchioni hanno infilato in questa serie il loro immaginario pop e cinefilo, le loro colonne sonore poco allineate, la rivisitazione di tutti i generi, narrativi e visivi, la voglia di provocare, l'insofferenza per ogni vizio o vezzo radical chic. Hanno portato i lettori del loro fumetto ad arrabbiarsi e innamorarsi di nuovo del loro antieroe più volte. E non è facile, perché come tutti gli altri, anche il popolo di John Doe è per natura abitudinario e "conservatore", troppo abituato e schiavo della continuity e della coerenza del racconto, depositario e fondamentalista del "proprio" personaggio.

Hanno, i due, la capacità americana di rompere gli argini e mettere in campo tanti elementi per poi, quando meno te l'aspetti, legarli al Tutto. E sono profondamente europei nel costruire un universo complesso e imperfetto, saturo ed esemplare. Ogni episodio basta a se stesso, ma tutti sono fondamentali per conoscere davvero questo ragazzo divenuto nichilista perché, forse, troppo sentimentale. Dopo l'estate John non ci sarà più, e c'è da giurare che ne sarà ben felice: se ne andrà come una rockstar. Giovane, bello, maledetto e all'apice del successo. Se non lo conoscete avete quattro numeri per scoprirlo e poi, magari, tornare indietro. Di sicuro, chi l'ha accompagnato in questi anni si sentirà orfano. Di lui, come si sente ancora la mancanza di quella canaglia di Harry Dante, protagonista della miniserie Detective Dante, degli stessi autori e dotata della stessa sana cattiveria e incapacità di rimanere nei confini dell'italico buonismo e della prevedibilità.

John Doe, come nelle tre precedenti stagioni, non ci ha dato indizi sulla sua fine, è perso nel gorgo di una sfida impossibile che come al solito vuole vincere, ovvero vivere tutti i generi della narrazione (l'ultimo? Il porno, trattato con poesia e malinconia), sopravvivendo loro. John Doe in questi 95 numeri ha affrontato tutti gli stereotipi, lui stesso è un concentrato di archetipi, ha vissuto storie drogate di citazioni e riferimenti a classici più o meno moderni. Eppure, fidatevi, era dai tempi di Sprayliz e Lazarus Ledd che non vedevamo qualcosa di così nuovo, potente, rivoluzionario. Vorremmo chiedere ai due padri di John Doe di ripensarci. Di non chiudere l'avventura di quest'eroe che ha un po' di Dago (che peraltro ha combattuto una battaglia al suo fianco) e il successo con le donne di Dylan Dog. Ma tradirebbero lui, prima ancora che se stessi. E allora ci auguriamo che questi due geniacci abbiano già un altro asso nella loro manica. John, di solito, ne ha sempre uno.

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