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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2012 alle ore 08:16.

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Se credete di sapere tutto su Attila, di Dio flagello (o fratello, a seconda) questa nuova produzione dell'Opera di Roma vi metterà in crisi. Soprattutto metterà in crisi quel che si dice di solito del primo Verdi, un po' rozzo, convenzionale, geniale ma a colpi di roncola.
L'Attila che Riccardo Muti ritorna a dirigere, come una delle partiture sue più care, diventa un titolo manifesto, di ribollente teatralità: scalpitante, inquieto, mai placato, nemmeno nel finale. Non c'è ritornello di cabaletta che non venga rispettato, eppure l'opera sembra velocissima, senza fermate. Le formule tradizionali degli accompagnamenti dei cantabili catturano a ogni iterazione. Il Coro ha momenti in lontananza, pianissimi, che disegnano spazi infiniti. Il tessuto armonico si snoda secondo una trama fine, principesca, quasi come la vestaglia rossa, fino ai piedi, ben aperta sui pettorali nudi, che Pier Luigi Pizzi fa indossare al capo degli Unni: non rozzo barbaro, ma solitario, inespresso eroe romantico.
Già nel Preludio, a sipario rigorosamente chiuso, la dissonanza di lui si contagia nei cromatismi che continuamente increspano la melodia, e che il direttore chiede freddi all'orchestra, in modo da non sciuparli, banalmente sentimentali. Una linea tesa, continua, lega quelli alla conclusione, quando Odabella uccide Attila. Lì il teatro è quasi di prosa, certamente di parola, col protagonista smarrito di fronte al tradimento di tutti, soprattutto di loro che aveva aiutato, anche amato. Annaspa a braccia vistosamente aperte, come cercasse un punto d'appoggio che gli manca, lui idealisticamente legato a una morale che qui non conta, dove troneggiano solo desiderio di vendetta, di potere, gelosie.
C'è molto dell'ultimo Mozart del Tito in questo primo Verdi (1846). Molto del Commendatore nel Don Giovanni nell'apparire di Leone, a fine primo atto. Muti sbalza tutti questi momenti come passaggi di consegne, con una precisa intenzionalità di difesa culturale. Altro che Roncole. Così come cesella devoto, quasi oasi di squisito camerismo viennese, lo strumentale esotico di flauto, viola, corno inglese e arpa, che accompagna Odabella, nel raro momento femminile, fuori dal ruolo di perenne amazzone.
Anche la tinta politica dell'opera, nata a Venezia e dichiaratamente risorgimentale, viene indagata al di fuori del prevedibile: dal libretto oscuro di Temistocle Solera il direttore stana come lampi i versi che dicono il disincanto del compositore nei confronti della politica, la denuncia di un degrado nella Roma a fine impero, molto vicino al presente. Pur senza sovratitoli, tutto è chiaro. Anche perché i cantanti mostrano una preparazione minuziosa, cesellata, che staglia la nota, difende il piglio cabalettistico, ma non oscura mai la verità di ciascun personaggio.
Così Ildar Abdrazakov è un Attila di velluto, magnetico, di voce e fraseggio magnifici; un barbaro elegante, di un'aristocrazia straniera, che non appartiene agli italici. Tatiana Serjan restituisce una Odabella belcantista, salda, piena negli affondi scuri, Nicola Alaimo è perfetto nel ruolo ambiguo del generale romano, Giuseppe Gipali sfoggia acrobazie in bello smalto tenorile chiaro. Ma è nei concertati che il dramma a pennellate di colore diventa quadro notturno, girandola eroica. Sul terreno di Rossini, Muti porta Verdi oltre.
La sala piena in ogni posto tiene il fiato. Alla seconda recita, non c'è numero chiuso dove non scatti corale l'applauso. L'orchestra suona eccellente, il Coro ha l'ala di Roberto Gabbiani. Il pubblico è normale, misto, niente dame in platea, niente fronde sopra. Il programma di sala, rilegato in brossura, al compimento del 2013 formerà per Verdi una collana editoriale. Tocco d'arte, la locandina ha il guizzo inconfondibile di Mimmo Paladino. Dal grande Attila ai minuti dettagli la volontà di costruire un Teatro si tocca, in crescendo.
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Attila, di Verdi, direttore Riccardo Muti, regia di Pier Luigi Pizzi, Roma, Teatro dell'Opera; fino al 5 giugno

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