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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2012 alle ore 08:16.

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Si può tentare di raccapezzarsi, fra i palesi alti e bassi della Divina commedia di Nekrosius, solo a patto di tenere a mente alcune avvertenze: in primo luogo, che si tratta davvero di una Divina commedia di Nekrosius, senza dirette attinenze con una seria esegesi dantesca. In secondo luogo, che non vi si trovano i versi, le figure che ci aspetteremmo di trovare, niente conte Ugolino, niente Ulisse: il regista, evidentemente, cercava altre strade, e sarà interessante chiedersi quali. Infine, che la percezione del poema da parte di un artista proveniente da un Paese lontano, come la Lituania, passa comunque attraverso parametri culturali molto diversi dai nostri.
Il principale pregio dello spettacolo è che esso non è affatto illustrativo. La peculiarità del suo taglio si coglie subito dall'impostazione corale che lo caratterizza, per cui il mondo dei dannati emerge dalle azioni collettive, per lo più quasi coreografiche, di un gruppo di giovani allievi. Questa scelta comporta un'impressione di grande freschezza, fuori dai canoni cupi, severi con cui di solito ci si accosta all'affresco dantesco, ma anche un certo suo fatale appiattimento: a contare, qui, sono soprattutto tre personaggi, Dante, Virgilio e una Beatrice violinista, mentre tutti gli altri sono vaghe apparizioni evocate per pochi istanti, ma senza tratti specifici, senza spessore.
Sottratti all'iconografia tradizionale, i tre protagonisti sembrano appartenere a un'epoca noi vicina, Dante con una specie di giubbotto rosso, Beatrice con un vestito nero e bianco e alla fine con un vistoso "tubino" ugualmente rosso, da movida, Virgilio con un lungo pastrano grigio, incolore come quelli di tutti gli abitanti dei gironi. Se costoro sono ridotti a entità impersonali, Nekrosius aggiunge invece un paio di presenze di sua invenzione, un postino con la slitta, incaricato di recapitare i messaggi dei morti ai vivi, un omaccione con un cappottone nero, una sorta di Caronte-diavolo-angelo, e poi Gemma, la sfortunata moglie del poeta.
L'altro aspetto che spicca è il taglio prevalentemente giocoso dato dal regista a questa sua interpretazione, in cui ha puntato soprattutto sull'ironia, sulla leggerezza, e dove invano cercheremmo la plasticità statuaria tipica di un certo immaginario alla Doré: basti dire che Dante, incontrando nel limbo Omero, Orazio e gli altri grandi autori del passato, si affretta a chiedere loro l'autografo. In questa chiave, viene ovviamente a mancare il grande pathos della pena, la dimensione dell'eterna sofferenza. E l'intero poema, nella sua visione, diventa una storia d'amore, non un itinerario di elevazione spirituale.
Perché Nekrosius ha scelto personaggi irrilevanti, come Vanni Fucci? Perché di alcuni non cita neppure la colpa, e anzi il tema del peccato, dell'espiazione sembra posto in secondo piano? L'unica spiegazione che so darmi – se si esclude la mera casualità – è che tutto l'impianto drammaturgico rimandi solo all'esperienza esistenziale dell'uomo-Dante, a un viaggio interiore di conoscenza di sé. I dannati, dunque, non sarebbero lì come tali, come esempi morali, ma come semplici defunti, come persone che in passato hanno avuto un significato simbolico per lui. Lo attesterebbero l'incontro con la moglie, o la scena in cui Francesca bacia Dante appassionatamente.
Uno dei momenti più significativi dello spettacolo, in questo senso, è quando Virgilio, esaurito il suo compito, si trova davanti a uno specchio, emblema dell'individuo arrivato di fronte al proprio limite. E può darsi che in quel percorso introspettivo di Dante si identifichi lo stesso Nekrosius, che vi riversa le sue ossessioni, le sue immagini dell'inconscio: Virgilio è senza dubbio una figura paterna, il vescovo con l'alta tiara di cartone sembra un'incarnazione infantile dell'autorità. E poi ci sono quelle ricorrenti presenze femminili, tentatrici e pure, sempre vissute un po' a distanza: Dante e Beatrice si accostano, si sfiorano ma non arrivano mai a toccarsi.
Certo, tutto ciò c'entra poco con la Divina commedia. Certo, non mancano le cadute di gusto: il brano di Pavarotti, ad esempio, inserito forse come omaggio a Modena, dove lo spettacolo è andato in scena al festival "Vie", dopo il debutto al Teatro Verdi di Brindisi, era francamente imbarazzante. Ma tant'è: il genio teatrale di Nekrosius non ne esce comunque offuscato.
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La divina commedia, regia di Eimuntas Nekrosius, visto a Modena, al Teatro Comunale

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