Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2012 alle ore 08:17.

My24

«Credano le Vostre Altezze che quest'isola e tutte le altre sono altrettanto loro quanto la Castiglia, che qui c'è solo da stabilirsi e comandare loro di fare ciò che si voglia». Così scrive Cristoforo Colombo nel 1493 in una lettera ai sovrani spagnoli, elencando poi quello che, oltre all'oro, si potrà ricavare da successivi viaggi: spezie, cotone, schiavi, cannella e altre merci pregiate. Dai giornali di bordo di Colombo e dei suoi contemporanei si evince con chiarezza come la naturale sete di conoscenza fosse mescolata con la brama di ricchezza. Tra esploratori e pirati, ci ricorda Attilio Brilli, c'era ben poca differenza. Anzi, spesso la stessa persona decideva in base alla convenienza in quale ruolo presentarsi.
Nel suo saggio, Brilli si sofferma tra l'altro sui motivi all'origine delle scelte dei nomi dei luoghi scoperti. Nel De arte peregrinandi Albert Meier sosteneva che era compito del navigatore riflettere in maniera approfondita prima di decidere. In genere si preferiva privilegiare l'omaggio ai sovrani. E infatti Colombo volle chiamare le terre incontrate Fernandina, «in memoria del re», Isabella, «per rispetto della Regina». Scelte analoghe sul versante britannico: in omaggio a Elisabetta nacque la Virginia, l'insediamento di Jamestown è così chiamato per rendere incancellabile il ricordo del successore scozzese della sovrana.
Oltre ai prevedibili pericoli costituiti dalle tempeste, a volte i viaggi di esplorazione e conquista potevano nascondere sorprese. Ne fu testimone Bougainville, che nel 1771 racconta in un libro l'approdo a Tahiti, dove scopre abitudini sessuali diverse da quelle europee: «La ragazza lasciò cadere il perizoma che la copriva e si mostrò agli occhi di tutti come Venere, quando apparve al pastore di Frigia». Comprensibile l'entusiasmo per le abitudini delle donne tahitiane dei marinai francesi, mentre è più prudente Bougainville, preoccupato di un possibile «contagio» di mentalità.
A lungo impenetrabile si rivela invece l'area islamica. Tra i primi a far luce sul vicino Oriente c'è Richard Francis Burton, il cui viaggio è finanziato a metà Ottocento dalla Royal Society. Burton ha l'istinto dell'esploratore e, insieme, del l'agente segreto: travestito da arabo, traccia su minuscoli fogli le mappe di luoghi ignoti agli occidentali. Un'accoglienza principesca viene invece preparata nel desertico Neged per i coniugi Blunt. A ospitarli tra il 1878 e il 1879 è un emiro, stupito di incontrare due europei in grado di parlare la sua lingua. Alcuni anni più tardi i resoconti di Burton e dei Blunt vennero utilizzati dal Foreign Office per istruire gli ufficiali inviati in un'area ritenuta di importanza strategica per proteggere gli interessi britannici.
Meno ardua, al contrario, si rivela per gli inglesi la conquista culturale e politica del l'India, riassunta nelle pagine della narrativa e celebrata da Kipling. Ma all'inizio del Novecento il «fardello del l'uomo bianco», che per secoli aveva ispirato i viaggi di conquista, stava diventando un ricordo del passato, i popoli colonizzati iniziavano a reclamare libertà e indipendenza. Dopo la Seconda guerra mondiale, smembrati gli imperi, le carte geografiche acquisirono nuovi colori. E molte mappe dovettero essere ridisegnate.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Attilio Brilli, Dove finiscono le mappe. Storie di esplorazione e di conquista, il Mulino, Bologna, pagg. 234, € 16,00. Il libro sarà presentato a Pesaro da Ugo Berti Arnoaldi venerdì 8 giugno alle 18 nell'Auditorium di Palazzo Montani

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi