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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2012 alle ore 08:13.

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«Poca favilla gran fiamma seconda. Una piccola scintilla può provocare un grande incendio». Dante lo ricordava all'inizio del Paradiso, augurandosi che quel suo sforzo lirico accendesse in altri poeti la fiamma dell'ispirazione. Cento anni fa, nel 1912, usciva a Roma un grosso volume sulla fortuna di Dante fuori d'Italia, a conferma dell'incendio di poesia suscitato dai versi danteschi nel mondo. Nella prefazione, l'autore, Marco Besso, dichiarava di voler «rendere omaggio al genio tutelare della lingua e della stirpe italiana», offrendo «il testimonio della universale diffusione delle opere di Dante, che attraverso ai secoli, con rinnovati cimenti e per le più svariate vie, ogni nazione civile ha voluto far proprie». Anche Besso si augurava di accendere con la sua modesta scintilla un grande incendio: con quel primo saggio sperava che in futuro altri compissero un'opera più organica e completa della sua.
Marco Besso (1843-1920), ebreo cresciuto a Trieste, innamorato di Roma e di Dante, pioniere nel campo delle assicurazioni sociali (fu presidente delle Assicurazioni Generali di Venezia), abile amministratore e protagonista della vita finanziaria e industriale d'Italia e d'Europa, nonostante gli affari e gli impegni, aveva saputo coltivare la sua passione per i libri e il suo amore per Dante. Nella sua biblioteca, sistemata nelle eleganti sale di un antico palazzo romano, tra decorazioni lignee e mobilio d'inizio Novecento, c'erano libri di economia, finanza, matematica attuariale ma anche di letteratura e arte. Besso aveva formato una ricca collezione dantesca: edizioni antiche e moderne, studi sul poeta e i suoi tempi, iconografie, bibliografie, traduzioni. Con La fortuna di Dante fuori d'Italia Besso intendeva raccogliere tutte le traduzioni della Commedia per dare la misura della sua diffusione nel mondo. Come saggio delle tante versioni, quel cortese gentiluomo d'altri tempi, conoscitore di previdenze sociali ma anche di terzine dantesche, scelse l'invocazione delle anime in penitenza per la loro superbia, con cui si apre il canto XI del Purgatorio. Dante aveva adornato con veste poetica il Padre Nostro. Besso offriva in ventisette lingue diverse la versione dantesca di una preghiera che era già sulle labbra e nei cuori di gran parte dell'umanità. Per procurarsi le traduzioni, Besso coinvolse studiosi e diplomatici, visitò paesi e biblioteche. Nella sua Autobiografia (pubblicata postuma dalla Fondazione Besso nel 1925), l'assicuratore bibliofilo racconta per esempio del suo viaggio a Dresda per consultare la biblioteca dantesca formata dal Principe Giovanni di Sassonia (notando che da quel seme prezioso venne il frutto abbondante degli studi danteschi in Germania) e della proficua settimana di scrittura sulla tranquilla sponda del Nilo a Luxor. È probabile che l'idea di tradurre il Padre Nostro dantesco nelle lingue del mondo sia venuta a Besso da Gerusalemme.
A metà Ottocento, infatti, una nobildonna italiana (sposata in seconde nozze a un nobile francese) aveva acquistato un terreno sparso di rovine bizantine e pietre crociate sul Monte degli Ulivi. Aurelia Bossie vi fece costruire un chiostro, perché, secondo la tradizione, quel terreno conteneva la grotta dove Cristo insegnò ai discepoli a pregare Dio chiamandolo "Padre", e sulle pareti del chiostro fece sistemare decine di lapidi maiolicate con la preghiera di Gesù nelle più diverse lingue del mondo. Ancora oggi il pellegrino in Terra Santa può leggere la stessa preghiera in più di cento lingue, articolata in lettere e alfabeti di ogni tipo. Cristo ha insegnato ai discepoli a pregare in aramaico, ma la presenza sul Monte degli Ulivi di tanti idiomi (come maltese, caldeo, guarani, russo) voleva essere il simbolo dell'universalità della fede. Besso, che nelle riunioni di lavoro memorizzava la Commedia e che teneva sul comodino Dante e la Bibbia, adottò la stessa strategia per dimostrare l'universalità del poema sacro, pubblicando la versione dantesca del Pater Noster nelle più diverse lingue del mondo. Besso offriva anche una rassegna di ritratti di Dante e di illustrazioni della Divina Commedia e opere d'arte a tema dantesco: i superbi che recitano la preghiera, Paolo e Francesca, il Conte Ugolino.
È significativo che, mentre voleva dimostrare l'impatto mondiale dell'opera dantesca, Besso riproponesse l'idea di Dante poeta nazionale, «quel Padre Dante», come scriveva nella prefazione, «che suggellando l'unità della lingua, assicurava il fondamento più valido dell'unità della Nazione». Con l'intento di unirsi alle celebrazioni e alle pubblicazioni patriottiche del 1911 (cinquant'anni dalla proclamazione del Regno d'Italia e quaranta di Roma capitale), Besso, che si sentiva figlio adottivo di Roma, scriveva nella prefazione che a Torino, prima capitale d'Italia, era stata riprodotta la prima edizione a stampa della Commedia (1472); che a Firenze, seconda capitale, era uscita la riproduzione della prima edizione completamente illustrata (1491); ora toccava a Roma, terza e definitiva capitale unitaria, rivendicare, in qualità di città universale, l'universalità della poesia dantesca. L'edizione fiorentina, dedicata al Re, era preceduta da un'introduzione di D'Annunzio. Besso aveva acquistato per 6.000 lire (circa 20.000 euro di oggi) la versione più pregiata, in pergamena miniata e legatura in pelle, impressioni in oro e fermagli in argento sbalzato, prodotta in soli sei esemplari. D'Annunzio vi aveva aggiunto di suo pugno una dedica speciale a Marco Besso. Per D'Annunzio, per ogni italiano, Dante era il genio della lingua e della stirpe d'Italia. Besso voleva dimostrare che quel genio nazionale era anche un retaggio universale. Per arrivare alla fine del volume, dove un'incisione riproduce il monumento a Dante a Trento, simbolo della cultura italiana in terra occupata, il lettore sfoglia pagine e pagine di lingue e di alfabeti del mondo.

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