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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2012 alle ore 08:17.

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«Se ci ferite, forse non sanguiniamo anche noi? Se ci solleticate, che forse non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate un torto, non dovremmo vendicarci?». Sono versi molto noti, che da secoli – ma più ancora dagli ultimi sette decenni – pesano sulla nostra coscienza di europei e (quelli tra noi che sono tali) di cristiani. Parole feroci, disperate, irrimediabili, che tagliano e bruciano ancor oggi a più di quattro secoli da quando furono scritte. È quasi obbligatorio citare la prima scena del terzo atto di Il mercante di Venezia di William Shakespeare: l'accorata e rabbiosa protesta di umanità da parte dell'usuraio ebreo Schylock, che si riferisce al dramma della segregazione e delle persecuzioni subìte dagli ebrei nella Cristianità medievale e moderna, fino alla soglia dei giorni nostri. Una storia lunga, complessa, che tuttavia il grande poeta ha saputo rendere sinteticamente in pochi tratti: il pregiudizio, l'esclusione, la sperequazione giuridica, i divieti relativi ai rapporti sessuali e alle nozze miste, le conversioni forzate.
Eppure, proprio in quello stesso testo, affiora involontariamente e a tratti «l'altra» verità: quella magari nascosta e negata, eppure a dispetto dei poteri e delle istituzioni onnipresente nel dramma della segregazione degli ebrei. Quella della circolazione non solo del denaro, ma anche dei rapporti umani al di qua e al di là delle mura dei ghetti; quella dei contatti frequenti per quanto guardinghi, delle relazioni strette anche se difficili, dell'amore che passa attraverso le porte chiuse, fora le cortine, abbatte le muraglie.
La realtà che Shakespeare ci squaderna dinanzi, sia pur trasfigurata dalla poesia, e ch'è quella del ghetto di Venezia tante volte descritto e tanto studiato (basti pensare ai molti benemeriti lavori di Riccardo Calimani), andava ben al di là dei prestiti finanziari e delle questioni amorose. Coinvolgeva leggi e trattati giuridici, condivisione e diversità di credenze e di atteggiamenti sia religiosi sia superstiziosi, perfino colori, odori e sapori – come in modo differente ci hanno ricordato Roberto Bonfil e Ariel Toaff –: e magari soprattutto conoscenze teologiche e scientifiche, cerimonie magiche e sortilegi stregonici, sogni e amuleti. Addentrandoci in quell'intreccio strettissimo di fatti, di eventi (molto spesso processuali) e soprattutto di persone, resta davvero difficile dar ragione a chi parla di «scontro di civiltà»: non perché la cultura ebraica e quella cristiana non fossero separate e magari per più versi opposte (non c'è dubbio che gli ebrei s'intendessero molto meglio con i musulmani), ma perché in realtà le occasioni d'incontro e perfino di amicizia e di collaborazione erano molte di più di quanto le nostre cognizioni storiche non ci abbiano almeno fino a tempi recenti abituati a pensare.
Marina Caffiero, modernista della Sapienza di Roma, è stata negli ultimi anni una delle più forti e limpide voci tra quelle che, nel mondo della ricerca scientifica, ci hanno aiutato a modificare al riguardo molti stereotipi che apparivano profondamente radicati: e ben noti sono i suoi studi recenti sulla comunità ebraica nella Roma pontificia. Ora, in Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria, essa ci aiuta – gestendo magistralmente un'ingente massa di fonti edite e inedite, cristiane ed ebraiche – a guardare più profondamente all'interno di un mondo che più volte è balenato dinanzi agli occhi di molti studiosi che tuttavia, spesso, non avevano strumenti euristici né metodologici (né, magari, coraggio e spregiudicatezza sufficienti) per procedere innanzi in indagini che richiedono rigore e finezza tutt'altro che comuni.
Ebraismo e cristianesimo «fedi abramitiche»; ebrei e cristiani «fratelli in Abramo» (e magari, pertanto, gli ebrei «fratelli maggiori» dei cristiani). È proprio da qui che bisogna cominciare: e da qui comincia la Caffiero: da quella inaggirabile, innegabile ma tanto scomoda «intrinsecità» di ebraismo e cristianesimo che obbligava Pio XI a ricordare in tempi difficili che «noi cristiani siamo spiritualmente dei semiti» e che tanto affascinava (e turbava?) Giovanni Paolo II: ma che fin dal Medioevo aveva dato luogo al problema, carico di conseguenze teologiche e giuridiche (dunque inquisitoriali), se gli ebrei fossero o no assimilabili agli eretici. Un problema che, in termini meno gravi e urgenti, si poneva peraltro anche riguardo ai musulmani.
Ma per risolvere quel problema, era necessario consultare dei libri. E magari anche raccoglierli, sequestrarli, intercettarli, trafugarli: toglierli dalla circolazione affinché non avvelenassero le coscienze, non ammorbassero il sistema di certezze, non contaminassero gli animi. Quanto aveva ragione il grande Heine, affermando che chi brucia i libri prima o poi brucerà anche gli uomini! ... Eppure, al tempo stesso, quei libri venivano richiesti, cercati, studiati. E non c'erano solo i testi biblici o i trattati scientifici: c'era l'universo immenso, oscuro, formicolante dei libri «superstiziosi», e dietro di loro anche le pratiche, gli esperimenti, l'interpretazione dei sogni, le pratiche esorcistiche, i riti. Se si voleva davvero carpire i segreti di qual sapere, leggere non bastava: bisognava conoscerli, gli ebrei: interrogarli, frequentarli, magari pagarli, oppure guadagnarne l'amicizia. C'è forse qualcuno che non abbia il suo buon amico ebreo da rivendicare? Ma anche in quei moltissimi casi tutto restava ambiguo. Paradossalmente, gli emarginati e i perseguitati divenivano un incubo, ma anche un inquietante oggetto di desiderio per i persecutori: l'ebreo era dotato di poteri occulti e terribili, l'ebreo faceva paura. Ed attraeva, eccitava, seduceva. Frugando tra le carte del Sant'Uffizio e tra quelle dell'Archivio romano di Stato, Marina Caffiero rintraccia numerosi «casi» di rapporti intimi e di casi di plagio e di seduzione, come una celebre vicenda piacentina di fine Seicento. Naturalmente, è molto difficile stabilire caso per caso quanto in queste accuse - che mischiano spesso il pregiudizio e la violenza della repressione alla quotidianità criminale, vera o supposta, come nel caso delle accuse di veneficio - l'iniquità delle istituzioni giuridiche, il travolgente potere della calunnia, il conflitto degli interessi materiali e l'astrattezza della formalizzazione processuale riuscissero a falsare o a deformare la realtà. Il quadro che comunque emerge da questa complessa, ricchissima e appassionante ricerca è quello di una «brutale familiarità», di una «cordiale inimicizia» che incideva profondamente sulla vita quotidiana e sulla struttura dell'immaginario collettivo cristiano. Per il resto, questo libro non si riassume: e non è banale il dire che, in questo caso, si legge davvero come un romanzo. Certo, potete anche ignorarlo: ma, come direbbe Nanni Moretti, continuereste a farvi del male.

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