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Questo articolo è stato pubblicato il 17 giugno 2012 alle ore 08:16.

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Nel 1907 James Joyce, appena rientrato a Trieste da un soggiorno insoddisfacente di sei mesi a Roma in cui mostrò scarsa attitudine al lavoro bancario, riprese la sua attività di insegnante privato di inglese, che coinvolgeva molti esponenti della borghesia ebraica, tra cui Italo Svevo. A Roma, con grande fatica vista la mole di ore trascorse negli uffici del ramo romano della banca austriaca Nast Kolb & Schumacher, aveva scritto l'ultimo racconto di Gente di Dublino, intitolato I morti, e un pomeriggio, mentre si trovava a Villa Veneziani, residenza di Svevo e della sua famiglia, a dare le consuete lezioni, volle leggere a Italo e alla moglie Livia I morti, per sentire il loro parere. Livia fu così scossa dalla bellezza di quelle parole che si recò in giardino, colse una rosa e la donò allo scrittore triestino in segno di stima e di affetto.
Fu così battezzato, con un atto spontaneo di commozione, uno bei più bei racconti scritti nella prima metà del XX secolo, una sorta di perla incastonata nella raccolta che Joyce avrebbe pubblicato, con molte difficoltà, soltanto nel 1914. I morti, infatti, rappresenta il punto più elevato della prosa joyciana non ancora sperimentale. Ambientato a Dublino, in una serata invernale, in occasione del ballo annuale dato dalle signorine Morkan, il racconto descrive con grande minuzia i rappresentanti della borghesia irlandese, con tutte le loro sfumature caratteriali e politiche e ruota intorno alle preoccupazioni e alle inquietudini di Gabriel Conroy, sposato a Gretta, che insegna ma ha anche velleità letterarie, colto in un momento di crisi esistenziale e di paralisi. A lui, come ogni anno, spetta il compito di preparare il discorso ufficiale, che vive come una finzione, laddove sembra parlare a vuoto ai commensali delle delusioni e dei rimpianti che stanno immalinconendo la sua vita, nella vana speranza di una Irlanda capace di rinnovarsi.
Durante la serata ci sono canti e balli, finché, per una ragione del tutto casuale, ecco che Gabriel è attratto da una bellissima canzone che evoca un amore lontano e perduto, La fanciulla di Aughrim. Le note tristissime, che narrano la storia di una ragazza ripudiata dall'amante, raggiungono Gabriel mentre si trova alla base della scala interna dell'appartamento, in una zona d'ombra, proiettato verso la sommità più luminosa dove vede per un istante in una sequenza davvero cinematografica la moglie Gretta come un'apparizione fantasmatica. Un momento epifanico di grande intensità, che lo scuote e lo turba, nell'immediato desiderio di fugare un senso incomprensibile di alterità, che gli dà l'impressione che la sua compagna appartenga a un mondo a lui precluso.
Finita la festa, la coppia tornerà in albergo con Gabriel ben intenzionato a rinnovare un'esigenza di possesso anche fisico della moglie, ma il suo diniego farà emergere una storia di tanti anni prima in cui un giovane innamorato di Gretta si è praticamente suicidato per lei: un segreto che la donna non ha mai comunicato a nessuno e che La fanciulla di Aughrim (la canzone che lui le cantava) ha fatto riaffiorare accentuando quel momento di estraneità che Gabriel ha percepito. Tutto questo per ricordarci che c'è sempre qualcosa dell'altro che non possiamo conoscere, che ci resta precluso; e che talvolta i morti sono più vivi dei vivi, nella loro onnipresenza emotiva.
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James Joyce, I morti, trad. e cura di Claudia Corti, Marsilio, Venezia, pagg. 178, € 14,00

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