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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2012 alle ore 11:46.

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Il Duomo di Milano nel giorno del solstizio d'estate diventa teatro per la messinscena de ‘I promessi sposi'.  La rivisitazione dell'opera manzoniana, curata e interpretata da Massimiliano Finazzer Flory, dopo un lungo tour internazionale approda all'ombra della Madonnina, giovedì ore 20, ingresso libero con una donazione a favore dei restauri della cattedrale. A due anni di distanza dal musical di Michele Guardì andato in scena nello Stadio di San Siro ritornano Renzo e Lucia ma in chiave strettamente letteraria.

"Protagonista dell'allestimento sarà il testo manzoniano - ha precisato Finazzer Flory - che da tempo sentivo la necessità di presentare al pubblico, come fosse una missione". Nello spettacolo non mancano brani musicali, tratti dalla colonna sonora del film "Il Padrino", da opere di Verdi, Mascagni, Bellini e Paganini, interpretati da  Gilda Gelati, prima ballerina del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala, ed Elsa Martignoni, violinista dell'orchestra Verdi.

Si tratta quindi di una produzione "Made in Milan", che arriva nel luogo di origine dopo un "esilio volontario" durato 80mila miglia: una lunga tournée di due anni che, dopo Stati Uniti, Europa, Egitto, Turchia, Mongolia, si concluderà in Australia, toccando così tutti i continenti. Per l'ex assessore alla cultura di Milano si è trattato di un esilio, il suo personale "Addio ai Monti", fatto "affinché l'Italia sappia a quale patrimonio rinuncia non valutando a sufficienza il genio della sua creatività".

"The Betrothed", una produzione internazionale in collaborazione con il Centro Nazionale di Studi Manzoniani, potrà essere seguito anche dagli stranieri a Milano grazie ai sottotitoli in inglese. E' una pièce polifonica con più registri recitativi, una dura prova per l'estensione vocale dell'interprete, che racconta attraverso una serie di quadri, sette, la vicenda di Renzo e Lucia in modo fedele al testo.

Una vicenda più che mai attuale sottolineato dalle musiche di Nino Rota scritte per "Il padrino" di Coppola, che ad entrambi valse l'Oscar, che avvolge di una dimensione mafiosa lo spettacolo fin dall'inizio. Infatti come da indicazioni di regia "il primo quadro si può leggere come un rapporto tra l'ipocrisia e il potere". Il secondo, il noto «Addio ai monti», come "una preghiera al passato, alla maternità e alla paternità della Patria".

La «rivolta del pane» è una sorta di risveglio del desiderio di conoscenza insito nella giovinezza. Il quarto è più che mai di cronaca: il colloquio tra l'Innominato e Lucia è un confronto tra il bene e il male, che non ha mai nome perché vigliacco, mentre il bene si chiama Lucia o Melissa, i cui nomi di donne si manifestano per dimostrare quale sia "la via della bellezza e della giustizia".

«Don Abbondio e Fra Cristoforo», «Cecilia» e il finale avvertito dal pubblico americano quasi come un happy end comico, sono gli altri quadri che restituiscono quel lontano Novembre del 1628, un tempo datato mai passato. E soprattutto restituisce a Milano una precisa dimensione culturale che negli ultimi tempi sembra smarrita da un'amministrazione titubante sia sull'estate musicale che sta per partire, non è ancora chiaro il cartellone dopo la forzata divisione in due programmi quello dell'Arena e dell'Ippodromo, sia sull'ormai annosa questione dell'Expo 2015.

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