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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2012 alle ore 08:49.

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Un paio d'anni fa ho partecipato a un dibattito. Il tema era: «La libertà di parola deve comprendere la libertà di offendere», o qualcosa del genere. Io facevo parte della squadra che appoggiava questa affermazione, assieme a Christopher Hitchens e a un vignettista satirico. Ho raccontato una storia che avevo sentito sull'Uganda del Nord, dove l'Esercito di Resistenza del Signore – il gruppo terroristico simile a una setta che rapisce i bambini per servirsene come soldati di fanteria e abusarne sessualmente – catturava chiunque fosse sospettato di criticarne l'operato, gli forava le labbra e gliele chiudeva con un lucchetto. E ho detto, riferendomi ai miei avversari nel dibattito: «È questo che vogliono fare a tutti noi – a tutti voi: vogliono mutilare i nostri organi fonatori e imprigionare le nostre voci».

Stavo esagerando un po', era una frase a effetto. I miei avversari non sembravano tipi sanguinari. Ma tutto sommato ero convinto di quello che stavo dicendo: la libertà di espressione dovrebbe essere assoluta.
Al tempo stesso, mentre tentavo di trovare un senso al genocidio in Ruanda e a tutto ciò che ne era seguito, ho scritto questa frase: «Il potere consiste perlopiù nella capacità di far vivere agli altri il nostro dispiacere della loro realtà, anche se per riuscirci dobbiamo ucciderne molti». Ed ero convinto anche di questo. Stavo parlando del potere allo stato grezzo, del potere politico: il potere degli Stati, delle leggi, delle armi. Ma lo stesso si può dire del potere culturale – il potere delle storie, il potere delle immagini – benché nel campo della cultura il numero delle vittime non sia così alto.

Immagino che molte persone, forse la maggioranza delle persone, darebbe per scontato che io stia condannando il potere, quando dico che fa sì che gli altri vivano dentro la nostra percezione della loro realtà. Ma non è così. Esiste il potere diretto al bene, così come il potere diretto al male. Si può raccontare una storia, sul popolo di una certa nazione, che esagera e inventa le differenze al suo interno, e dice che trucidare una parte di quel popolo non è sbagliato, ma giusto: non è un crimine, ma un'attività del tutto legale. E si può raccontare una storia, sul popolo di quella stessa nazione, che esagera e inventa un senso di unità al suo interno, e dice che è sbagliato parlare, e soprattutto agire, in maniera tale da creare divisioni.

Quello che conta, in queste storie – cioè il criterio in base al quale le giudichiamo – non è se siano esagerate e inventate, ma se conducano a un esito più o meno positivo. Ossia: ciò che distingue un tipo di potere da un altro è innanzitutto la qualità della realtà che intende creare. Non so se c'è una definizione comunemente accettata del termine "politicamente corretto". Al mio orecchio è sempre sembrato che derivasse dal gergo dei funzionari e dell'apparato del Partito comunista.

Che differenza c'è, in fondo, fra essere semplicemente corretti, ed essere politicamente corretti? La differenza sta nel fatto che essere semplicemente corretti significa essere oggettivamente, verificabilmente nel giusto e nel vero, ed essere politicamente corretti significa... al diavolo l'obiettività, l'unica cosa che conta è ciò che vogliamo rendere giusto e vero, e abbiamo il potere politico per farlo.
Quindi per me essere politicamente corretti significa seguire la linea del partito. Tutto ciò che non è politicamente corretto è deviazionista, e in quanto tale punibile.

Assumere la posizione dettata dalla linea del partito equivale a dire che il pensiero è stato completato una volta per tutte. Questo è vero sia per chi è a favore del politicamente corretto, sia per chi lo osteggia. Per essere politicamente corretta, una linea di partito non dev'essere per forza stalinista. Può essere di destra o di sinistra, o a metà fra le due cose; può riguardare questioni profonde di ortodossia dottrinale o questioni relativamente banali di comportamento e galateo.

Il politicamente corretto può essere questione di vita o di morte in un sistema politico assolutista, o può equivalere semplicemente a fare le cose "come si deve". Ma in entrambi i casi, è una cosa su cui non si può discutere. Ecco perché, in genere, io non sopporto il politicamente corretto. È qualcosa di rigido, dottrinario, censorio, è letale per la mente, per la fantasia, per la lingua e la capacità di visione. È contrario alla sottigliezza, alla complessità, alle sfumature, alla sovversione – persino all'indagine.

Il sociologo Dan Bell ha definito un ideologo come una persona che gira per le strade dicendo: «La risposta ce l'ho, qual è la vostra domanda?». Il politicamente corretto è questo. Al suo peggio può equivalere all'Inquisizione Spagnola, e nel migliore dei casi è soltanto ridicolo. Ho scritto che la libertà di parola dovrebbe essere assoluta. Tuttavia, tante cose che al mondo dovrebbero essere in un certo modo purtroppo non lo sono. Di fatto, le parole possono essere armi, possono essere letali, e qualunque tentativo di costringerle a seguire una linea di partito, di stabilire ciò che è politicamente corretto o meno, diventa una misura del rispetto che si nutre per il loro potere.

Perciò, se si vuole difendere la libertà di espressione assoluta, bisogna farlo tenendo presente che la libertà di espressione assoluta è pericolosa. Bisogna decidere che vale la pena correre il rischio. L'alternativa è sostenere che qualunque codice linguistico politicamente corretto sia una pura e semplice sciocchezza, il che equivale a dire che le parole non hanno potere. E se questo fosse vero, non sarebbe poi un gran problema se ci tenessero chiusa la bocca con un lucchetto, no?

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