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Questo articolo è stato pubblicato il 24 giugno 2012 alle ore 08:18.

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Ci vuole un filtro magico per far ridere a teatro, perché oggi è difficile trovare uno spettacolo che sappia suscitare il sorriso. Il filtro lo ha trovato Damiano Michieletto, regista giovane, prossimo al Festival di Salisburgo (ai primi di agosto, con una nuova Bohème diretta da Gatti) che a Palermo ha portato un Elisir d'amore divertente, ragionato, costruito con ritmo di commedia dalla prima all'ultima battuta. Libero, ambientato in una spiaggia, con ombrelloni e piscina gonfiabile, anziché tra i tradizionali covoni e forconi, tutti in costume da bagno, anziché con gli abitucci a balze dei finti contadini, coi personaggi dettagliati uno per uno sulla storia, che finalmente esce raccontata fino in fondo, con l'agrodolce tipico di Donizetti, la piega amara, lo sguardo cinico sul mondo delle sue opere buffe.
Ride il pubblico del Teatro Massimo, segue avvinto, come se finora non avesse mai visto l'opera. La sala, osservata da un palco di proscenio, è teatro nel teatro: traboccante, giovani e anziani, gli occhi vigili e quei movimenti corali a onda, di quando insieme si respira sulle emozioni. Ultima replica della ricca stagione palermitana, prima dell'estate, e la sorpresa è trovare il clima da ultimo giorno di scuola (nelle scuole ben fatte) dove l'esperienza culturale ha maturato una collettività. Senza bisogno di proclami preconfezionati. L'opera buffa, da sempre, è stata il viatico per far passare dei messaggi seri, realistici, là dove l'opera seria idealizzava affetti spesso immaginari. Sulla spiaggia di Michieletto l'amore agognato dal gonzo Nemorino (qui bagnino) fa chiaramente rima con denaro. Altro che furtiva lacrima, è la banale storia di ogni giorno: appena lui passa da raccatta-rifiuti e sposta-lettini a ricco erede dello zio defunto, ecco che le belle indifferenti della spiaggia sono tutte lì pronte, disponibili, che se lo contendono. Affiorano con le testoline dalla piscina piena di schiuma, come tanti pesciolini in gara per il buon boccone. È il denaro che vince, scolpisce in agrodolce Donizetti.
Non l'amore.
Adina, operosa proprietaria dei bagni "Adina", col nome luccicante nell'insegna al neon, legge sul computer la storia di Tristano e Isotta, come fosse una soap. È una dura, una fredda. Sfuggente, come spesso i personaggi femminili donizettiani. Non la capiamo fino in fondo: accetta i corteggiamenti rapidi di Belcore, il primo ufficiale di marina di passaggio, pur di fare dispetto a Nemorino. Perché? Lo sa il mago Dulcamara, ciarlatano imbonitore, che qui vende energizzanti da discoteca e all'occasione anche bustine di coca: gli umani sono bizzarri, in gioco indecifrabile. «Comprate il mio specifico» e si ricomincia da capo. Il pianto chiude, se si sorride, la storia continua all'infinito.
Centrata la lettura, tutti la fanno propria, dai solisti al coro, magnifici. Desirée Rancatore è una spietata Adina, ideale nel belcantismo gelido di Il mio rigor dimentica (bissato), Celso Abelo un Nemorino tondo, di delicati fraseggi e colori sfumati, perfetto sempre, non solo nella Furtiva lacrima (bissata a furor di popolo). Mario Cassi fa un Belcore bello, perfetto, anche sotto la doccia e Giannetta, Elena Borin, ha voce e presenza di spicco. Sorpresa della serata Paolo Bordogna, un Dulcamara di velluto, seduttivo e misterioso, con guizzi di cattiveria nel sillabato, ma sempre sul canto, umanissimo, mai caricaturale, di splendida tecnica, fuori dal bozzettismo consueto dei bassi buffi. Sembra incredibile, ma anche la buca, affidata alla cucina tenacemente mesta di Paolo Arrivabeni è contagiata dalla verità della scena, dalla gioia delle corse dei bambini.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Elisir d'amore, di Donizetti,
direttore Paolo Arrivabeni,
regia di Damiano Michieletto, Palermo, Teatro Massimo

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