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Questo articolo è stato pubblicato il 24 giugno 2012 alle ore 08:18.

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Sembra quasi un paradosso: quanto più il cinema si immerge nella vertigine della propria mutazione digitale, tanto più avverte il bisogno di ancorarsi alla propria storia e alla propria memoria per trovare in esse la residua possibilità di elaborare un possibile "ritorno al futuro". Una manifestazione come Il cinema ritrovato di Bologna ne è una delle conferme più belle: per una settimana – dal 23 al 30 giugno – il capoluogo emiliano diventa una vera, pulsante città del cinema. Ma non del cinema contemporaneo: mentre gli altri festival spesso si accapigliano per inseguire il (discutibile) primato di poter offrire anteprime mondiali nel proprio cartellone, Il cinema ritrovato – giunto ormai alla ventiseiesima edizione – riscopre il passato e lo rimette a nuovo, riuscendo a coinvolgere migliaia di spettatori – per lo più giovani – nella celebrazione del culto della memoria del cinema. Non solo: in tempi in cui l'esperienza filmica sembra tramontare dietro forme di consumo effimero, parcellizzato e assolutamente individuale, Il cinema ritrovato ha il merito e il coraggio di riproporre con forza il rito del cinema come visione collettiva davanti a un grande schermo. Quest'anno, fra Piazza Maggiore e le quattro sale cittadine coinvolte nella manifestazione, il programma offre la possibilità di vedere l'extended version di C'era una volta in America di Sergio Leone, appena passata sugli schermi di Cannes: un film pensato negli anni Sessanta, uscito negli anni Ottanta, infinitamente tagliato, rimontato, rieditato, e ancora un volta trasformato, con l'aggiunta di 25 minuti inediti, in un processo di infinita trasformazione che ne fa davvero uno degli oggetti filmici più inafferrabili della nostra contemporaneità.
Ma a Bologna arriva anche John Boorman (il regista di titoli-culto come Un tranquillo weekend di paura, Excalibur, Anni '40) per presentare in Piazza Maggiore l'edizione restaurata del suo Point Blank (Senza un attimo di tregua,1967), noir penitenziario sul tema della vendetta, pieno di sorprendenti sperimentalismi visivi. Accanto a lui, Il cinema ritrovato presenta i restauri di altri capolavori assoluti della storia del cinema come La grande illusione (1937) di Jean Renoir, Lawrence d'Arabia (1962) di David Lean, Lola (1961) di Jacques Demy, assieme a un omaggio al cinema di Raoul Walsh e – tra le sessioni più interessanti – quella che presenta una selezione di film che hanno raccontato e messo in scena la Grande Crisi del '29. Il più atteso è senz'altro David Golder (La beffa della vita, 1931), tratto dall'omonimo romanzo di Irène Némirovsky e diretto da Julien Duvivier (il futuro regista di Don Camillo), un film capace di captare con straordinario tempismo lo stato di disagio e di incertezza scaturito dal collasso dell'economia e dalla colpevole sottovalutazione della gravità delle situazione. Accanto ad esso si potranno vedere titoli "epocali" come Hard to Handle (L'affare si complica, 1933) di Mervin Leroy o Darò un milione (1935) di Mario Camerini, ma anche un robusto e struggente mélo proletario come Man's Castle (Vicino alle stelle, 1933) di Frank Borzage o una lucidissima analisi in forma di commedia dei meccanismi sottesi allo scambio, alla circolazione e all'accumulazione del denaro (Komedie om geld, Gli scherzi del denaro, 1936, di Max Ophuls). A rivederli oggi, fanno pensare a come il cinema è stato davvero l'occhio del Novecento: non solo e non tanto perché ne ha inscenato e drammatizzato i conflitti e le contraddizioni, quanto piuttosto perché ha saputo far propri gli stati emozionali del pubblico, e dar loro una forma. Chissà se fra cinquant'anni si potrà dire la stessa cosa dei film che oggi – da Margin Call a Inside Job – cercano di mettere in scena la crisi in cui siamo precipitati e il disorientamento che tutti ci attanaglia.
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