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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2012 alle ore 08:20.

Un barlume ha la forma di una luce fioca che nasce da una candela, uno sguardo, un riflesso, un brillio; e allo stesso tempo è ciò che si sottrae al buio, alla notte, al vuoto, alla morte. Lorenz (Magne-Håvard Brekke), segaligno quarantenne professore di architettura, mani in tasca, i fini capelli pagliericcio all'altezza delle spalle, passeggia nella classe mentre colleziona le risposte dei suoi studenti. Gli edifici che hanno progettato sono creature spente e lui allora li interroga su cosa sia un barlume, da cui invece dovrebbero essere abitate. Anche Camille (Lola Créton) ha disegnato una casa che galleggia a motori spenti, ma, provocata da Lorenz, è la prima ad offrirsi a dare una definizione in levare, in sottrazione del barlume: non fiamma ma «ciò che sfugge all'oscurità». Come fa lei, da quando un fuoco l'ha bruciata.
Il suo barlume è stato Sullivan (Sebastian Urzendowsky), consumato quando lei aveva appena quindici anni, lui diciannove, in una passione raccontata da Un amore di gioventù di Mia Hansen-Løve. Classe 1981, la regista francese, già autrice dell'apprezzato Il padre dei miei figli, segue con naturalezza lo sbocciare e il contorcersi di un rapporto totalizzante, che nulla ha da spartire con l'armonia. Camille si getta con il furore adolescenziale del pulcino che ha da poco rotto il guscio infantile, seguendo il desiderio senza paracadute.
Lola Créton è bravissima a dare le vibrazioni di un corpo che ha appena conosciuto la sessualità ed esprime la novità in movenze lievi, sgrezzate da certa goffaggine bambinesca. Nello stesso tempo esprime l'intensità incredula di chi non sopporta il dolore, perché non l'ha mai conosciuto prima. Sullivan è innamorato di Camille, ma non riesce a soffocare una natura viaggiatrice e fedifraga. E ogni volta assiste stupito alle scene di gelosia, come se lei gli chiedesse di uccidere la sua indole.
La doppia faccia del barlume finirà per separarli e far nascere in lei la voglia di morire. Ma è un attimo e poi, dopo anni, entra in scena l'amore calmo, Lorenz, anche se Sullivan non scomparirà.
Mia Hansen-Løve riesce a raccontare un sentimento di eccessi adolescenziali con la stessa forza angosciosa e tensiva delle emozioni di un periodo della vita in cui tutto è nuovo, possibile e senza contorni definiti, se non quelli che può tratteggiare il protagonista.
Molto cinema recente si è dedicato ai sentimenti dell'età di soglia. Rimangono vivide le immagini di Cime tempestose di Andrea Arnold, in cui Heathcliff è un ragazzo nero, che soffoca l'impotenza della sua passione per Catherine nello sfiorarsi da vertigine di tessuti e stoffe o in una lotta di corpi fanciulleschi nella terra, come se la sensualità non capisse bene dove affondare. O il commovente Tomboy di Céline Sciamma, in cui una bimba appena trasferitasi in una città nuova, approfitta dell'errore indotto dal taglio di capelli e dall'abbigliamento androgino per abbandonarsi all'idea di essere un maschio e innamorarsi, ricambiata, di una ragazzina.
Oppure il delicato L'estate di Giacomo di Alessandro Comodin, dal prossimo 20 luglio nelle sale, in cui due ragazzi, Stefania e Giacomo, si perdono nelle brume della calura estiva sul fiume Tagliamento. Sguardi esitanti, contatti cercati e poi abortiti in una lotta temibile, che apre il varco al mondo degli adulti e che Giacomo quasi allontana, inibito anche da un «difetto» di fabbricazione che lo ha reso sordo dalla nascita. Forse il cinema si ferma a riflettere sull'adolescenza perché è un'epoca senza sconti in una vita, che allungandosi a dismisura, inevitabilmente si annacqua e si piega.
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