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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2012 alle ore 15:51.

«Piuttosto che nominare gli oggetti e le cose, Gadda li sorprende nel loro farsi e testimonia della loro provvisoria esistenza». Per chiunque si trovi ad affrontare la gigantesca figura di Carlo Emilio Gadda, il massimo scrittore italiano del Novecento, c'è un'altra montagna da scalare: è quella «Disarmonia prestabilita» con la quale Giancarlo Roscioni aprì, ormai oltre 40 anni fa, il labirinto gaddiano a generazioni di lettori, Italo Calvino compreso, rivelando le ragioni profonde di percorsi digressivi acrobatici, di processi astrattivi, di un "pasticciaccio" linguistico che infiamma la prosa.
«Conoscere - per il Gran Lombardo - è inserire alcunché nel reale, è quindi deformare il reale». Ma l'obiettivo del suo furore incendiario resta sempre quello di ricostruire il piano della realtà, per non arrendersi al caos. Il momento della deformazione serve a disvelare, dietro la superficie delle cose, la trama che le unisce le une alle altre conferendo a ciascuna la sua provvisoria apparenza. Lo gnommero di Ingravallo va dipanato. L'ansia dell'ingegnere non si ferma alla rappresentazione del magma del reale, non rinuncia mai a risalire la catena delle molteplici cause per arrivare al quadro, all'insieme.
Walter Pedullà, nel riprendere il suo saggio su Gadda del 1997, non teme di confrontarsi con quella montagna e con questa verità. Riequilibra la sua opera, aggiunge oltre cinquanta pagine nuove sul Pasticciaccio, rincorre il «figlio buonannulla» sui percorsi dell'omnia circumspicere. Fa emergere «la geometria nel caso, caos o pasticciaccio di Gadda, che sia cerchio (l'omnia ) o cubo, figura solida in cui possono essere più proficuamente iscritti tutti i romanzi di Gadda».
Sottolinea l'ambizione in qualche modo realistica dello scrittore lombardo, perché «barocca è la vita» ed è solo per questo che il seguace di Alessandro Manzoni non poteva che essere uno scrittore barocco.
Non dimentica la lezione di Roscioni, Pedullà, nell'affrontare l'apparente mistero delle digressioni che sono sempre e comunque al servizio del romanzo. «Arrivano notizie da ogni parte e da ogni livello: stai pensando una cosa, e se ne impone un'altra; osservi un luogo, e un'associazione inconscia ti porta lontano e sollecita un'emozione estranea; stai parlando con una persona, e la tua mente si mette a dialogare con un'altra. Forse è la nevrosi ma, se così fosse, la nevrosi è linguaggio della modernità, ovvero della passeggera verità attuale».
Eccolo il cuore della mimesi barocca. Del l'ossimoro scabroso, che in Gadda smonta, costruisce e rappresenta il reale in continuo e vorticoso rimescolamento, moltiplicazione, enumerazione. Savinio e Debenedetti, ricorda Pedullà, preso in mano lo gnommero, parlarono di «forma dell'informe» e capirono cos'è il formalismo dei narratori moderni.
La mente va ad Arbasino che rilevò che «nel magma delirante dove i vecchi recensori scorgevano tutt'al più "coacervi" o "congerie" di tipo neurotico o materico, un nuovo saggista agguerrito come Roscioni individua piuttosto una tecnica conoscitiva e una visione dell'Universo». Gadda vuole chiudere la tela. In questo sbaglia Pedullà quando afferma che il Pasticciaccio pretende di finire, ma si scontra nelle reistenze di un narratore «tenacemente restio a mettere la parola fine al suo romanzo». Gadda quella parola vuole metterla, ma semplicemente non ce la fa: l'analisi dei dettagli e la ricerca delle cause si rivelano «una tela di ragno» che imprigiona «non la mosca per cui è stata filata, ma il suo scrupoloso e improvvido costruttore».
Walter Pedullà, Carlo Emilio Gadda. Storia di un figlio buonannulla, Editori Riuniti, Roma, pagg. 398, € 20,00
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