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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2012 alle ore 08:19.

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Cattelan fa il verso a ZurbaranCattelan fa il verso a Zurbaran

Zurbaran e Cattelan. Il finale è lo stesso e forse anche il principio. Nonostante i due artisti appartengano a epoche differenti, uno al barocco spagnolo e l'altro al realismo contemporaneo internazionale, c'è chi ritiene che abbiano molto in comune. Non solo loro, peraltro, ma un intero filone di artisti che hanno lavorato sul lato grottesco dell'immagine e sull'aspetto "riottoso" del Barocco: è questo l'aggettivo prescelto da Bice Curiger per una vasta rassegna alla Kunsthaus di Zurigo.

Il sistema adottato non si discosta molto e anzi approfondisce quello per cui la stessa curatrice, l'anno scorso, iniziò la mostra centrale alla Biennale di Venezia con tre quadri di Tintoretto su cui aleggiavano i piccioni impagliati di Cattelan. Là si trattava di parlare di luce e di cielo, qui il tema passa dal bene figurato a qualcosa di laterale: forse ci troviamo in mezzo al male e alle sue allegorie, forse dentro agli aspetti inconfessabili dell'interiorità, forse semplicemente nella realtà così com'è senza censure, senza idealità e soprattutto senza radici certe. Il sottotitolo della mostra parla, non a caso, di senso del precario.

È sempre un'operazione difficile accostare i quadri di un tempo con opere contemporanee, anche se sono congiunti da eco tematiche e figurali. E infatti la parte in cui Bice Curiger dispone le opere dei secoli XVI e XVII è fatta di pareti protette da tela ocra, mentre lo spazio dedicato a fotografie, installazioni e dipinti di oggi è bianco e asettico: quasi una divisione che consacri il passato e non osi dissacrare valori dati, opere che provengono da grandi musei, luoghi che già da soli servono a renderne indiscutibile il valore. È un peccato che in una mostra così tesa, dal punto di vista delle tematiche, gli autori recenti siano spesso così mainstream che si teme siano stati messi qui anche per la pressione di gallerie o collezionisti che ne vogliono stabilizzare il valore commerciale attraverso una legittimazione storica e culturale. Ma transeat: questa mostra piuttosto audace non è il primo né il peggiore dei casi in cui, consapevolmente o meno, tutto ciò accade. I prestiti antichi alla mostra comprendono opere di Magnasco, Mattia Preti e molti nordici che, con uno spirito più aggressivo dei latini, insistono sul lato putrido della morte. L'opera che fa da incipit è di Pieter Aesten (1551-55); rappresenta la bottega di un macellaio del XVI secolo e ci ricorda che la catena dei buoi squartati nella storia dell'arte va da Rubens a Chaim Soutine e da Jannis Kounellis a Damien Hirst e corre senza soluzione di continuità.

È suggestivo vedere i visi catalogati dal fisionomista seicentesco Conrad Meyer insieme a un gruppo di teschi, ricordando quanti ne abbiano mostrati le antiche vanitas e comparandoli a quelli che hanno fatto gridare allo scandalo nella produzione artistica recente. La donna mezza dama e mezza salma di un maestro tedesco del Settecento ci dice cose che ci raccontano anche le signore impersonate da Cindy Sherman, nelle sue foto, quando si trucca come una ricca newyorkese reduce dall'ennesimo lifting (2008).

Spesso l'antico, utilizzando una foga moralizzatrice che il contemporaneo non osa, è più crudo e violento. Pensiamo alle tematiche erotiche: le ragazze di plastilina che si muovono con sensualità nei video di Nathalie Djurberg (2008) sono monumentini a una seduzione senza freni, ma appaiono abbastanza poco ardite se comparate a scene bibliche o mitologiche di secoli or sono. Vediamo così Susanna che si mostra ai Vecchioni o una Venere di Poussin (1625) che, contratta dal piacere, eccita i satiri con la malizia di chi tiene gli occhi chiusi ma i sensi e le gambe aperte. Al confronto la nudità di una matura Charlotte Rampling, fotografata da Jurgen Teller al Louvre proprio di fronte alla Gioconda, mostra una ben diversa dignità (2009). E la scrofa tridimensionale di Paul McCarthy, nella sua rosea ed esuberante maternità (2003), è meno raccapricciante del porco con le viscere aperte dipinto da Jusepe de Ribera.

La mostra dichiara come sia pretestuoso ritenere che l'arte contemporanea si compiaccia di un gusto dell'orrido che le dovrebbe garantire attenzione, successo mediatico e scandali adatti a fare salire i prezzi: la descrizione del brutto è sempre stata una tentazione di chi è stato allevato nel culto del bello. È l'altra faccia di una medaglia che ogni epoca ha voltato con arguzia. Chi accusa gli autori d'oggi di cercare immagini forti senza costrutto deve osservare con quanta acribia il raccapriccio sia stato perseguito dall'arte ancora prima che Kant, Rosenkranz o Bataille tematizzassero l'estetica dell'eccesso.

Resta aperto un quesito che compare ogni qual volta si generalizzi un concetto che ha descritto un'epoca storica: ha senso estendere il termine "barocco" ai nostri giorni? Vecchia questione che tocca anche parole come "classico" e "romantico", su cui sono stati spesi interi saggi per comprendere se si tratti di categorie dello spirito o termini tecnici. Il punto è: le rovine di Chernobyl descritte da Diana Thater nelle sue proiezioni (2010) e il letto azzurro spiaccicato di Urs Fisher (2011) forse mostrano una continuità formale con le rovine immaginarie che Monsù Desiderio ha dipinto nel 1632. Ma un mondo in cui la Chiesa era ancora padrona della morale, in cui i Vangeli erano interpretati ma non discussi, in cui i valori erano dati per certi e non considerati transitori, era radicalmente diverso dal nostro. L'instabilità di oggi non sembra essere solo maggiore di grado, ma diversa nella sostanza e nei motivi rispetto a quella del passato preindustriale. Anche allora si viveva in un contesto destabilizzato da una rivoluzione scientifica, ma gli effetti sull'etica della rivoluzione che stiamo vivendo noi non sono paragonabili ad alcun momento passato.

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