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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2012 alle ore 08:15.

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Gianni Rodari maestro d'ironiaGianni Rodari maestro d'ironia

Caro Gianni,
ho davanti a me le pagine iniziali della tua Grammatica della fantasia, là dove scrivi che un sasso gettato in acqua «suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace e nel suo sonno, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro». Rileggo queste righe su un pontile del lago d'Orta, che per entrambi è patria: io ci vivo; tu ci hai passato l'infanzia e qui sono nati i tuoi personaggi che amano l'acqua così tanto da farsi crescere squame e pinne... Ché tu lo hai spiegato magistralmente in quel gioiello di romanzo intitolato C'era due volte il barone Lamberto: questo è un lago speciale che merita di essere il fondale per storie meravigliose, perché «fa di testa sua»: ha infatti un fiumicello emissario, la Nigoglia, che non solo vuole l'articolo femminile, ma che – unico tra tutti gli emissari dei nostri laghi alpini – invece di mandare le sue acque a sud in direzione del grande Po, esce dalla parte settentrionale del lago, puntando decisamente verso le Alpi.

A questo punto, se seguo il tuo sasso mentre precipita verso il fondo, smuovendo le alghe e spaventando pesci, tra le reazioni a catena provocate da quella caduta mi balza agli occhi il giudizio complessivamente limitativo con cui ti hanno bollato i critici italiani, poco inclini a valutare positivamente l'elemento fantastico – insieme all'ironia, alla parodia e al non-sense – quando si presenta nella narrativa. Eccoli, ramazza alla mano, tutti intenti a spazzare sotto il tappeto i testi di difficile catalogazione, per rendere lucido e tirato a specchio il pavimento della Letteratura con la maiuscola. Di conseguenza, così come spesso hanno snobbato gli infantili stupori di Savinio, l'ascendenza nordico-favolistica di Buzzati o la libertà delle storiùcole di Compagnone, hanno pure finito per relegarti tra gli scrittori per l'infanzia.

La tua grande colpa, mio caro Gianni, è di aver immerso la sua opera nel chiarore del sogno e del meraviglioso; di essere l'erede delle anonime fiabe nate ai tempi del c'era-una-volta e una-volta-non c'era: storie di una memoria antica che – percorrendo un fiume sotterraneo che ha attraversato millenni, distanze geografiche e frontiere linguistiche – sono diventate parola scritta appena ieri, nel primo Ottocento; o ieri l'altro, se vogliamo ricordarci dello Straparola, di Basile, di Perrault.

Scusami se mi scaldo: mi succede sempre quando parlo di fantastico, forse perché sento agitarsi dentro di me il ruminìo di tutte le nonnàve di famiglia che mi hanno messo nel sangue la passione per la fantasia, con le loro rime che ancora mi cantano negli orecchi: «Pierino Pierone, fammi un piacere/ Metti la testa sul mio tagliere» oppure «Io sono giovine, morte mia bella/ Va' da mia zia che l'è vecchierella»... Credo sia successa la stessa cosa pure a te, perché non hai mai guardato dall'alto in basso le fiabe tradizionali; anzi, ci hai aggiunto la libertà combinatoria di Ariosto e le suggestioni di Collodi e di Andersen. Ché per te il genere fiaba non è stato puro modello da attualizzare, ma pretesto, «materia prima» su cui lavorare scomponendo, mescolando, rifacendo da capo. Perciò, mio favoloso Gianni, ti debbo molto. Hai ricordato a tutti noi lettori che uno scrittore deve conservare la visionaria libertà mentale dei bambini. Sostenevi che l'immaginazione non è fuga dalla realtà; e che, se esistesse una Fantastica, come esiste una Logica, l'essere umano non sarebbe a una sola dimensione. Lo sanno bene filosofi, matematici, scienziati: «Non si può avanzare di un passo se non speculando, teorizzando, stavo per dire: fantasticando»: così scriveva Freud che certamente di meccanismi mentali se ne intendeva. E tu lo ribadivi in ogni pagina, tornando spesso a quel frammento di Novalis che ti piaceva citare: «Le ipotesi sono reti: tu getti la rete e qualcosa prima o poi ci trovi». Ancora un'immagine di lago, come se oggi le frasi dentro di me si cercassero nuotando. Passa dunque attraverso la fantasia la strada per un mondo nuovo. Lo dimostrano gli accostamenti insoliti che amavi costruire: il cow-boy coraggioso è banale; se strimpella un banjo, è scontato; ma se si porta appresso il pianoforte per suonarci le variazioni di Beethoven su un valzer di Diabelli, riesce a bruciare la stoppa che rimpinza di gonfio il fantoccione cascante del nostro trantràn mentale; e naturalmente non ce lo scordiamo più. Lo stesso succede per le pagine con cui prendi in giro le «piccolezze enormi» dei vizi della gente comune, il grottesco di certa quotidianità.

Mi viene in mente, per esempio, il tuo signor Dagoberto che di mestiere fa «il tavolino per gli appunti del suo datore di lavoro»: provoca il riso, ma anche una sottile sensazione di inquietudine: siamo pienamente nel territorio della definizione pirandelliana dell'umorismo... E che dire del godimento di noi lettori davanti alla tua inventiva verbale? Come dimenticare lo stemperino, la trimucca, l'antiombrello?... Anche i palati più esigenti e smaliziati non possono che incantarsi alle battute fulminanti che getti come un'esca alla conclusione di una storia, perché chi legge le possa rimasticare con complicità. Nei capitoli finali nella tua Grammatica mi imbatto in un due frasi che ho sottolineato tanto tempo fa: una citazione di Wittgenstein, «Le parole sono come una pellicola superficiale su un'acqua profonda» – ancora acqua, ancora lago – e il tuo motto, «Tutti gli usi della parola a tutti». Che è come dire: la fantasia al potere. Non perché necessariamente tutti siano artisti, ma perché tutti siano più liberi. Le fiabe non servono forse a questo? Per secoli, per i pollicini che tutti siamo stati – nel tempo in cui tutto era inaccessibile e troppo più alto di noi – le fiabe hanno rappresentato una piccola luce tremolante nel mistero della vita; hanno insegnato il potere liberatorio del meraviglioso, in cui il silenzio delle cose normalmente indicibili viene infranto... Ma non amiamo le fiabe solo per questo: ché le storie fantastiche aprono la mente, proprio perché apparentemente non servono a nulla: «come la poesia e la musica, come il teatro o lo sport (se non diventano un affare)».

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