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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2012 alle ore 08:18.

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Ai primi giorni di novembre del 1860 la costa di Napoli sfuma poco per volta all'orizzonte del piroscafo che porta Garibaldi a Caprera, carico – novello Cincinnato diranno i suoi ammiratori – di qualche pacco di caffè e di zucchero, un sacco di legumi e una balla di merluzzo secco. Con uguale movimento, qualche settimana prima, l'Italia aveva assunto un tratto meno nitido nelle righe di quel Memorandum che, fresco ancora della vittoria del Volturno, egli aveva voluto indirizzare alle grandi potenze e dove, invocando gli Stati uniti d'Europa, si grida «non più eserciti, non più flotte», perché «gli immensi capitali prodigati in servizio dello sterminio» dovevano ora essere messi al servizio di quelle povere creature, condannate, in ogni parte dal mondo dall'egoismo delle classi privilegiate «all'abbrutimento, alla prostituzione dell'anima o della materia».
Un eroe nazionale prende, insomma, il largo – per usare un'espressione marinaresca che non gli sarebbe dispiaciuta – da ciò che egli ha appena costruito. Non ne prende, banalmente le distanze e tanto meno lo rinnega. Semplicemente va oltre, cerca approdi che meglio di quelli che ha potuto fino a quel momento frequentare gli restituiscano il senso profondo della sua avventura umana e storica. Raggiunge i compagni di una volta, Mazzini, Pisacane, per i quali – come per lui – costruire una nazione non ha mai voluto dire rinchiudersi nella difesa di interessi personali e sociali, ma diventare cittadini liberi che si incontrano armoniosamente con altri cittadini liberi di altre nazioni. Prova a respirare quella che altri, in altri, anche più difficili momenti della storia nazionale, chiameranno la libertà liberatrice.
L'espressione – "eroe dei due mondi" – Mille e mille volte ripetuta fin quasi a usurarsi nella banalità quotidiana, racchiude intatta in sé una complessa verità: il nostro maggiore eroe nazionale ha costruito la propria dimensione umana e storica in un lungo e fertile rapporto con uno spazio altrove. Il tempo trascorso tra Brasile, Argentina, Uruguay, a contatto con realtà antropologiche e sociali che la natura e la storia più lontana, ma anche le esperienze più recenti legate a un'impetuosa e contraddittoria richiesta di emancipazione, hanno reso un ricco caleidoscopio, deve essere considerato il tempo nel quale prende forma l'originale fisionomia di Garibaldi, della sua idea di patriottismo e, dunque, del modo in cui egli si farà protagonista, poi, della battaglia per l'indipendenza e la libertà italiana.
In America egli incontra davvero un mondo nuovo che attraverso rivoluzioni, guerre e talvolta anche guerre civili, sta costruendo il proprio definitivo distacco dalla sua storia coloniale, dal Vecchio Mondo. Sono gli stessi spazi che egli incontrerà nel secondo esilio, i pochi anni nei quali, come un eroe di Salgari, naviga lungo le coste dell'America meridionale, da Panama fino a Valparaiso e poi, nel pieno del Pacifico, tra le isole Filippine e le Sandwich fino a Canton , per poi far ritorno «a far lucignoli e a maneggiar sego» nella fabbrica di candele dello sfortunato Antonio Meucci a New York. Nel frattempo, la sua difesa di Roma gli ha assicurato ammiratori meno naif dei suoi compagni di avventure oceaniche: da Quinet, a Hugo, la democrazia europea riconosce nella sua battaglia per l'Italia una bandiera universale di libertà. E così sarà ancora dopo il 1860, quando Lincoln lo vorrebbe tra i suoi generali nella guerra di secessione, quando cinquecentomila inglesi lo acclamano a Londra, quando viene salutato a Ginevra, al congresso per la pace, quale campione di una nuova Europa dei popoli, quando, sotto la neve di Digione – come lo dipinge De Albertis – Garibaldi ha il capo chino, non umiliato da una sconfitta, ma pensoso di fronte alla vittoria di una nazione, la Germania di Bismarck e di Guglielmo II, ormai lontanissima dai suoi ideali.
Strade, piazze, le corrispondenti stazioni di una metropolitana o di una ferrovia che portano il nome di Giuseppe Garibaldi, talvolta scuole, associazioni, costruiscono, poi, un po' ovunque nel mondo un reticolo della memoria quotidiana che è la più evidente testimonianza della condivisione e della diffusione della sua figura.
Del mito Garibaldi non ha solo il carattere universale, ma anche quello, non meno determinante, della molteplicità dei significati. Esso ci parla in maniera diversa a seconda della domanda che gli poniamo. Durevole nel tempo proprio in virtù della sua capacità di adeguarsi alle interrogazioni mutevoli che ogni generazione si pone affacciandosi sulla scena della storia, il mito di Garibaldi trova in questa apparente docilità la sua ragione di esistenza. È come se la ricchezza della sua vita, necessariamente contraddittoria come tutte le vite vissute intensamente e intensamente pensate, si rispecchiasse nelle diverse idealità politiche che vi si sono volute riconoscere, nelle contrastanti interpretazioni che gli storici vi hanno accumulato, nelle attese collettive di chi, volta a volta, vi ha creduto di scorgere il combattente della patria e quello dell'umanità, il condottiero militare e l'utopista della pace.
In questo senso il rischio a cui si espone un mito non è quello di prestarsi, per dir così, a vaticini diversi a misura delle trepidanti richieste di verità di chi a esso si rivolge. Questa è, anzi, la sua forza, ed è il suo senso più profondo. Il rischio sta nel logoramento che può subire un nome quando dalla dimensione illustre, e già tuttavia insidiosa, delle piazze o delle strade, si riduce alla ripetitività quasi meccanica di uno stanco manuale scolastico o della immagine stereotipa.

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