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Questo articolo è stato pubblicato il 08 luglio 2012 alle ore 08:16.

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«La verità si trova nell'incertezza», aveva detto Socrate. In un'epoca in cui il bombardamento continuo delle informazioni ci fornisce infinite certezze, questa affermazione socratica acquista un'importanza particolare. Il cittadino contemporaneo, almeno in questo che un tempo chiamavamo "Mondo occidentale", si dibatte in una contraddizione permanente che si instaura con l'aumento delle certezze ed è direttamente proporzionale all'insicurezza. Le informazioni che ci vengono trasmesse come verità accrescono il nostro senso di smarrimento.
Il problema delle certezze è che a volte confermano le illusioni e conducono a una verità solo apparente. È questo il fenomeno che viviamo oggi in Grecia in tutta la sua enormità. Viceversa, l'incertezza ci spinge alla ricerca della verità dei fatti. Tuttavia, è anche possibile che ci porti verso un'altra convinzione: quella, per intenderci, che la verità sia liquida e mutevole e che, quindi, la sua sia una ricerca infinita, destinata a ripetersi ogni volta in circostanze diverse.
L'incompiutezza ha molti punti in comune con l'incertezza. Se l'incertezza apre, secondo Socrate, la strada verso la verità, l'incompiutezza è il meccanismo che mette in moto la fantasia. La compiutezza in relazione all'arte funziona più o meno con le stesse regole della certezza in relazione alla verità.
In entrambi i casi, l'uomo medio cerca la verità nelle certezze e l'opera d'arte nella perfezione. Rifiuta sia l'incertezza come strumento di ricerca della verità, sia l'incompiutezza, l'imperfezione, come meccanismo che muove la fantasia.
Certo mi si potrebbe ribattere, proprio perché sono uno scrittore greco, che le tragedie antiche mi smentiscono, poiché ciò che ammiriamo in quelle opere è esattamente la loro compiutezza. Le opere dei tragici antichi, Eschilo, Sofocle ed Euripide, si distinguono proprio per i canoni severi e la forma chiusa, quasi matematica.
L'argomentazione è corretta, ma ha a che fare con la caratteristica fondamentale della tragedia. Lo spettatore antico conosceva già l'argomento della rappresentazione, come anche il finale. Che seguisse le Coefore di Eschilo o l'Elettra di Sofocle, il tema non cambiava. L'obiettivo principale non era raggiungere la compiutezza formale, ma narrare il conflitto tra dèi e mortali e mostrare quel complesso di emozioni che Aristotele definiva "terrore e pietà" e che veniva suscitato nello spettatore proprio da quel conflitto. Invece, nelle tragedie "umane" di Euripide, come Medea e Andromaca, e nelle tragedie politiche, come le Troadi ed Ecuba, la fonte del terrore e della pietà cambia, nel senso che quei sentimenti non si originano più dall'osservazione dello scontro tra dèi e mortali, ma sgorgano o dall'odio e dalla sventura degli uomini, come nella Medea, oppure dalla tragedia della guerra, come nelle Troadi.

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