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Questo articolo è stato pubblicato il 09 luglio 2012 alle ore 11:30.

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A metà degli anni Novanta, David Foster Wallace fu spedito da Harper's in crociera di lusso: ne venne fuori un saggio che è ormai un classico della non fiction americana, Una cosa divertente che non farò mai più (minimum fax, 1998). Con abbondanza postmoderna di dettagli si raccontava il divertimento forzato della vacanza tutto compreso, e il senso di morte che l'autore sentiva aleggiare nella nave.

Una puntata dei Simpson uscita quest'anno, e intitolata A totally fun thing that Bart will never do again, celebra quel saggio mandando i Simpson in crociera. È una crociera iperbolica: la nave è così grande da poter ospitare a poppa delle montagne russe, e così sofisticata da offrire ai vacanzieri sessioni di Lego Architecture con Rem Koolhaas. L'argomento della puntata è il piacere e la sua inevitabile caducità, ed è di piacere e di televisione che parlava Wallace al talk show di Charlie Rose nel 1996: «La televisione è capace di dare piacere in dosi incredibili… La narrativa non lo sta facendo, e per la tv prova disprezzo culturale... Se da una parte la tv promette divertimento facile, l'avanguardia letteraria è orribilmente non divertente». Secondo Wallace la letteratura doveva imparare dalla tv a dar piacere alla gente. Eppure la tv non era solo piacere: la tv migliore, ossia, all'epoca, proprio i Simpson, aveva la malattia dell'ironia. A una radio del Wisconsin, nel 1997, Wallace disse che pur considerando i Simpson un'importante opera d'arte, «trovo che corroda l'anima: mette tutto in parodia, copre tutto di ridicolo... se mi ci immergo per un'ora poi devo uscire e andare a guardare un fiore».

Nella raccolta di saggi The Legacy of David Foster Wallace (University of Iowa Press, 2012), il romanziere e critico Lee Konstantinou la mette così: «Wallace scrive a partire dalla convinzione che viviamo in una società e in una cultura di indefinibile ma ubiqua tristezza – resa storpia da un complesso di solipsismo, anedonia, cinismo, sarcasmo e ironia tossica, una cultura il cui vagare privo di scopo può rintracciarsi nella consumistica Fine della Storia». Divenuto adulto durante la presunta Fine della Storia – dopo la caduta del muro e del comunismo – Wallace temeva l'ironia a tutti i costi, l'incapacità di farsi ingaggiare dalla realtà. Non era però scandalizzato dal potere della televisione: nel saggio sul rapporto tra tv e letteratura «E unibus pluram» (in Tennis, tv, trigonometria e tornado, minimum fax, 1997), scrive: «La televisione offre molto più che distrazione, rende possibili i sogni, e nella maggior parte di questi sogni è implicita una sorta di trascendenza della vita quotidiana media». La letteratura non doveva porsi ironicamente contro questo sistema, ma prendere sul serio la televisione: «I veri futuri "ribelli" letterari in questo Paese potrebbero benissimo emergere come uno strano gruppo di antiribelli, guardoni nati che osano in qualche modo rifiutare il ruolo di spettatori ironici, e che abbiano l'infantile faccia tosta di essere sostenitori e rappresentanti di una serie di principi privi di doppi sensi. Che semplicemente si occupino dei problemi e delle emozioni poco trendy della vita quotidiana americana con rispetto e convinzione. Che rifuggano dall'artificiosità, da quella forma di stanchezza annoiata che fa tanto in».

Questo ragionamento mi sembra anticipare quel che è successo nella televisione alta: la tv intelligente degli anni Novanta puntava sul distacco ironico, ma arrivava all'accettazione di tutto – dal trash in su – purché nulla venisse preso seriamente. Nell'ultimo decennio invece la tv è ripartita da prodotti seri come il documentario, l'inchiesta e soprattutto la serie tv drammatica, rendendo possibile la nascita dello spettatore serio, del guardone non ironico. I Simpson in questo senso paiono ormai superati. Quando a inizio secolo si impone la serie Six Feet Under, saga di una famiglia di becchini, tutto parte esattamente con la negazione del piacere infinito della distrazione: ogni puntata della serie comincia col racconto di una morte.

In un certo senso, tv e letteratura americana si sono incontrati oltre l'ironia. Per quanto la cosa sia controversa, il successo di pubblico di libri "alti" come Libertà di Franzen (Einaudi, 2011) e L'arte di vivere in difesa di Chad Harbach (Rizzoli, 2011), sembrano rifarsi al tono serio dei drama televisivi, rinunciando in parte sia alla sperimentazione sia all'ironia a tutti i costi. Si sente molto la mancanza della prima, poco della seconda. A ben vedere i Simpson sono consapevoli della scomoda posizione in cui si trovano: a vent'anni dal saggio di Wallace, la puntata sulla crociera ha una trama metanarrativa coraggiosa, consapevole e rivelatrice, che si gioca tutta sull'analogia crociera/televisione: esattamente a metà della puntata, un animatore prende il microfono nella sala concerti e dice: «Ogni volta che arriviamo a metà del viaggio, mi piace fare una pausa di riflessione». L'animatore intona una canzone che dice: «godetevela finché dura», perché dopo si torna a «dolore e paura».

Bart sbianca e scopre il senso di morte: «Non importa quanto mi diverterò: il resto della mia vita sarà un disastro». Per evitare di tornare alla vita, Bart trasmette su tutti gli schermi della nave una clip da un disaster movie: un virus sta mettendo fine all'umanità, bisogna restare a bordo. Il panico apocalittico che segue trasforma la nave in una colonia penale di forzati del piacere, per la soddisfazione di Bart che non vuole tornare a terra. Un tribunale del divertimento commina punizioni dette "funishments" a chi non si sta divertendo. Tra queste, otto ore di "trenino forzato" a ritmo di musica. Anche se il finale è costruttivo – la famiglia si ritrova al Polo e si diverte in modo genuino scivolando sulla neve insieme ai pinguini – il racconto del rapporto fra piacere, tempo e senso di morte sembra un'ammissione di responsabilità nonché un vero omaggio ai temi di Wallace. Il problema però è strutturale: sono ventitré anni che Bart Simpson ha dieci anni e va alle elementari.

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