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Questo articolo è stato pubblicato il 12 luglio 2012 alle ore 13:24.

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Interrogato sul tema "i piccoli aiuti degli scrittori, sotto forma di alcool o droga", Hunter S. Thompson ebbe un attacco di rabbia. Il giornalista della Paris Review si era fatto portavoce dei romanzieri e dei poeti che celebravano la lucidità mentale (almeno in fase di revisione). Lui dissentiva: «Ma lei pensa davvero che l'Apocalisse sia stata scritta da gente sobria?» (in originale: «Who the fuck do you think wrote the Book of Revelation? A bunch of stone-sober clerics?»). Il gentiluomo del Kentucky aveva cominciato con i drink locali. Poi passò al rum di Portorico, dove era sbarcato dopo il licenziamento dalla rivista Time (non rispettava le scadenze).

«Il suo cervello era così marcio per l'alcol che quando cercava di avviarlo sembrava un vecchio motore inzuppato nel lardo», leggiamo nelle molto autobiografiche Cronache del rum. Per tutto il resto, in dosi da cavallo, fa fede Paura e disgusto a Las Vegas. Senza mai un ripensamento. Senza la tentazione di smettere, ripulirsi, avviare una vita morigerata. In buona compagnia con Edgar Allan Poe, ritrovato in coma alcolico su un marcipiede di Baltimora. A fianco di Ernest Hemingway, William Faulkner, Dylan Thomas, Jack Kerouac, Malcolm Lowry, Philip Dick (per citare i primi che vengono in mente).

Bella tempra condivisa dagli scrittori dell'Ottocento, gran frequentatori di bordelli e bevitori di assenzio (se francesi) o consumatori di laudano (se inglesi). Nessuno di loro, dopo i primi acciacchi da stravizi in un'epoca che di malanni ne garantiva comunque moltissimi, si sognò mai di raccomandare ai colleghi più giovani di evitare le puttane. La sifilide era un rito di passaggio, e chi se ne frega se conduceva alla pazzia (il resto lo facevano certe cure a base di mercurio).

Non usa più. L'ultima volta che abbiamo visto Lou Reed a Milano, il cantore del Wild Side stava attaccato alla bottiglia di evian come un bambino al biberon (meglio sarebbe stato lasciarla dietro le quinte, e non togliere agli ormai maturi fan l'illusione). Non è solo questione di pasticche o di canne. Provocano lo stesso effetto certi voltafaccia teorici, per esempio quello di Tzvetan Todorov: dopo averci fatto penare sullo strutturalismo, se ne esce in vecchiaia con l'idea che la letteratura è questione di gusto. Ognuno ha la sua droga prediletta. Da scegliere tra mescalina, etere, morfina, oppio, allucinogeni, canne, vario pastigliame, anfetamine, antidolorifici, volendo colla da sniffare (per gli scrittori con le tasche vuote). Balzac, per esempio, scrisse i suoi romanzi tenendosi su con il caffè: oltre che berlo, lo mangiucchiava fresco di macinino, e probabilmente ne morì. Tra gli effetti collaterali indesiderati andava molto la perdita del prezioso manoscritto in unica copia. Peggio andò alla moglie di William Burroughs, che giocando a Gugliemo Tell con il consorte – mela sulla testa e balestra, faccenda pericolosa quando si è poco lucidi – fu ammazzata da una freccia.

La droga di Jay McInerney era la cocaina. Cominciò a sniffare quando lavorava come fact checker per il New Yorker, fieramente contrario alle «droghe che rilassano» (qui, come su varie faccende, il mondo si divide in due, e una metà non capisce l'altra). La cocaina dominava il suo primo romanzo, pubblicato prima di compiere 30 anni: Le mille luci di New York. L'ha smessa da un po', rinunciando anche alle feste e alla vita sregolata. «La mia fortuna sta nel non essere morto a 40 anni», racconta a un giornalista del Times, aggiungendo particolari sulla sua vita casalinga da cinquantenne che va verso i sessanta. Entro le undici a casa, con la quarta moglie che di cognome fa Hearst. Cancellare dalla biografia la partecipazione al film del 1994 Drug-Taking and the Arts.

Lo aveva preceduto il collega e amico Bret Easton Ellis, di una decina d'anni più giovane (Meno di zero uscì pochi mesi dopo Le mille luci di New York). L'etichetta diceva "brat pack", con loro c'era Tama Janowitz. Il racconto è in Lunar Park, che ha per protagonista uno scrittore che si chiama proprio Bret Easton Ellis, e all'inizio racconta una serie di figuracce collezionate durante il tour per la promozione di Glamorama. Non c'è scritto "autobiografia". Ma quando leggiamo di disintossicazione – prima serviva una sniffata di coca anche per affrontare la doccia: «avevo paura di quel che poteva uscire dalla bocchetta» – e di colazioni con fiocchi d'avena dietetici si capisce che non sono solo fantasie. Tra i personaggi del romanzo compare con nome e cognome anche Jay McInerney, che pare non abbia gradito (ha gradito ancor meno il padre di Bret Easton Ellis: pare sia servito da modello per lo psicopatico Patrick Bateman di American Psycho).

Ora McInerney beve solo vino. «Per divertimento, non per ubriacarmi» tiene a precisare. Un bel salto per chi era cresciuto negli anni di Mad Men, e aveva visto i genitori bere solo cocktail. Nelle prime stagioni, almeno: nell'ultima Roger e la moglie prendono Lsd sotto la guida di Timothy Leary, il gran guru della sostanza. A Cary Grant invece l'acido lisergico lo aveva prescritto il suo psicoanalista, e l'attore rimase molto soddisfatto dei risultati. Quasi come Aldous Huxley con la mescalina: la prese sciolta nell'acqua, si guardò la piega dei pantaloni, gli fu svelato «il mistero glorioso della flanella grigia», e gli si aprirono le porte della percezione (ecco perché i Doors hanno scelto quel nome).

A giugno uscirà da Bompiani I piaceri della cantina. Titolo più adatto al giro d'Italia vinicolo di Mario Soldati che a una serie di articoli firmati Jay McInerney (attualmente ha una rubrica sul Wall Street Journal). Negli articoli, si discute di borgogna e pinot grigio, si parla di struttura, di corpo, di retrogusti. Viene in mente Antonio Albanese, che fa il suo lungo balletto con il bicchiere prima di sentenziare: "è bianco", "è rosso". E soprattutto certi detective incalliti, che chiedevano «un whisky, il peggiore che avete». Gente simpatica di cui si è perso lo stampo.

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