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Questo articolo è stato pubblicato il 15 luglio 2012 alle ore 08:19.

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A chi vuole capire il teatro che si fa oggi, a chi vuole avere un'idea del teatro che si farà nei prossimi anni suggerirei di non perdere lo straordinario Reality, lo spettacolo che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini hanno tratto da un materiale di per sé già alquanto insolito: i 748 quaderni in cui una donna polacca, Janina Turek, ha annotato ossessivamente per circa mezzo secolo – con bella scrittura, e in un ordine maniacale – i dettagli più insignificanti delle proprie giornate, le telefonate fatte o ricevute, i cibi consumati durante i pasti, le cartoline che lei stessa si spediva. Alla singolare esperienza i due avevano dedicato tempo fa un esemplare "studio" che si basava sugli oggetti contenuti in una serie di scatoloni: oggetti presi dalle loro case o comprati ai mercatini, oggetti che sarebbero potuti appartenere a Janina e che, accostati casualmente, commentati, fissati in un ricordo, formavano come la sintesi di una vita. Reality, che ne è lo sviluppo per così dire definitivo, parte da un punto di vista per certi aspetti opposto, quello dello svuotamento, della rinuncia a qualunque dimensione concreta, a favore di una trama quasi impalpabile di gesti e di parole.
In questa nuova versione, che è stata una delle proposte più applaudite del recente festival «Inequilibrio» di Castiglioncello, i diari di Janina ci sono ancora ma restano come sullo sfondo, senza l'intento di "rappresentarli", né di usarli per raccontare l'esistenza della donna: citati, descritti, colti in alcuni passaggi fondamentali – il giorno in cui lei ha deciso di tenerli, lo spostamento di peso delle loro "voci" in relazione al trascorrere del tempo – offrono soprattutto un formidabile pretesto per interrogarsi sulla possibilità del teatro di penetrare nel segreto di un essere umano.
È rivelatrice, in questo senso, la scena iniziale, in cui i due attori cercano di "interpretare" la fine improvvisa di Janina, colpita da infarto per la strada, e ne discutono mentre la fanno, arrivando alla conclusione che ogni morte recitata è un'insopportabile finzione. Da questa constatazione dell'impotenza del teatro nasce però, paradossalmente, un folgorante linguaggio teatrale, indiretto, doppiamente trasversale in quanto i diari cui si ispira non sono che una mera elencazione di fatti, di date, senza aggiunte di pensieri o sentimenti personali, e in quanto molte delle situazioni evocate dal copione sono del tutto inventate.
Perché questa riflessione a ruota libera, informale, senza un'apparente struttura drammaturgica, è tanto efficace? Perché ribalta le normali prospettive, illumina episodi che parrebbero trascurabili – la rottura del telecomando è un momento assolutamente straziante – e lascia in secondo piano aspetti forse decisivi, l'abbandono da parte del marito, l'avvento del regime comunista, appena accennati, ma proprio per questo caricati di un enorme risalto allusivo. Così, a suo modo, per vaghi indizi, per frammenti fa emergere pur sempre l'acre ritratto di una persona, un livido spaccato di solitudine e di dolore. Col suo parlare dimesso, falsamente naturale, la Deflorian fa sfoggio di un talento mostruoso, quasi inarrivabile. Ma anche a Tagliarini, nel loro gioco di continui interscambi, tocca un gran pezzo di bravura, quello in cui Janina si scopre invecchiata – «mi sembro mia zia» – si osserva le mani, si accorge d'aver ripreso a mangiarsi le unghie dopo quarant'anni: pronunciato da un uomo, senza nessuna traccia di immedesimazione, ha un effetto ancora più struggente. Entrambi non recitano, né si limitano a dire, ma fanno scaturire il personaggio dall'interno, come se si rivelasse per forza propria.
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Reality, di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini; Milano, Teatro La Cucina dell'ex-ospedale psichiatrico Paolo Pini; 26 luglio

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