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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2012 alle ore 12:07.

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Il musicista di cui più si è discusso, a Umbria Jazz 12, è Sonny Rollins. Nessuno lo aveva previsto. Vale la pena di dedicargli l'intero spazio a disposizione, dato lo spessore del personaggio, 82 anni a settembre – quindi uno dei pochi superstiti illustri della stagione d'oro del "vero jazz" – che da più di mezzo secolo si fregia del titolo di Saxophone Colossus. E lo merita ancora per la potenza del suono, la creatività incessante, la pulsione evidente a non finire mai il proprio assolo anche a scapito dei comprimari, e il desiderio quasi di annullarvisi.

È accaduto che il suo concerto all'Arena Santa Giuliana di Perugia – tenuto in sestetto con Clifton Anderson trombone (bentornato, sebbene quasi inattivo), Peter Bernstein chitarra, Kobie Watkins batteria, Sammy Figueroa percussioni e il fedelissimo Bob Cranshaw contrabbasso – sia durato un'ora e mezza senza soluzione di continuità, con un paio di brani insolitamente brevi e con la negazione di un bis richiesto a gran voce da tremila spettatori. Un fatto simile non si ricordava a memoria d'uomo. Rollins ha sempre superato con generosità due ore di musica dal vivo; e non mancano le conferme di chi lo ha ascoltato per tre ore di seguito. È forse giunto il momento del naturale declino, mai neppure accennato dal Colossus malgrado il trascorrere del tempo?

Facciamo un passo indietro. Non è la prima volta che Rollins solleva discussioni e perplessità, però di tutt'altro tipo. I musicofili di lungo corso sono pronti a testimoniare che la reputazione di Rollins come maestro saggio, le cui parole sono ascoltate con grande rispetto e perfino con venerazione, non è molto antica. Il maestro in passato ha annullato concerti senza preavviso e alcuni suoi atteggiamenti sul palcoscenico provocavano tensione.

Oggi sarebbe impensabile. Quello era il Rollins con la barba e i capelli corvini, oppure – a sorpresa – con la testa completamente rasata, sopraccigli compresi. La saggezza è arrivata con la prima canizie. Adesso Rollins è tutto bianco. A Perugia si è presentato con barba abbondante e con un curioso taglio dei capelli che sembravano in levitazione.

Ma allora cos'è successo nel capoluogo umbro, davanti a un uditorio entusiasta fin dalle prime note? Passiamo alla cronaca. Rollins entra in scena accolto da un'ovazione clamorosa. Cammina ondeggiando con passo incerto, ma l'anca offesa non lo disturba più del consueto. Attacca una sua composizione, Patanjali, ed è il solista torrenziale di sempre, pieno di vigore e con la tendenza a escludere i collaboratori. Il brano è lungo e termina soltanto quando è il caso di sostituirlo con un altro che è Once In A While, il vecchio standard di Michael Edwards. Segue l'immancabile, romanticissima Serenade di Ricardo Drigo, ed ecco poi il calypso Don't Stop The Carnival che Rollins dedica a un musicologo italiano. Qui arrivano i brani brevi e la conclusione senza il oppure i bis che con Rollins sono di rito.

Il pubblico sfolla in un silenzio insolito e si incrociano ipotesi. Ma qualche esperto provvisto di occhi per guardare bene il palcoscenico, oltre che di buone orecchie per ascoltare, si è accorto che il maestro non è soddisfatto (a torto, secondo il sottoscritto) di uno dei suoi musicisti: il chitarrista, per evitare qualsiasi dubbio a carico degli altri, compreso il sonnolento Anderson. Rollins è severo, e chi lo apprezza da tempo non ignora che queste cose con lui succedono. L'esperto di cui sopra viene anche a sapere che il sestetto (ovviamente con Rollins) ha effettuato prove nel pomeriggio per un'ora e mezza sotto un sole implacabile. Perciò non è davvero il caso di parlare di declino.

Il maestro si è scusato con la direzione artistica e si è detto disposto a ritornare l'anno prossimo ospitando due solisti italiani. Si parla di Enrico Rava, a lui noto per gli anni che il trombettista triestino ha trascorso in America, e di Paolo Fresu. Arrivederci dunque al 2013.

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