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Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2012 alle ore 19:47.

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Il giudice Paolo Borsellino, con due sostituti, sta interrogando Gaspare Mutolo. A un tratto interviene uno dei due pm che accompagnavano l'allora aggiunto alla Procura di Palermo e chiede i nomi dei personaggi collusi con le istituzioni. Mutolo non se lo fa chiedere due volte e tira fuori i nomi di Bruno Contrada del giudice Signorino. "Borsellino si infuria. Non era quello il momento. Dice a Mutolo di tacere. Era furioso, preoccupato, nervoso. Tanto da accendere una sigaretta, mentre un'altra accesa era ancora appoggiata sul posacenere. Ma non era certo la prima volta che accadeva. In altre occasioni avevo visto il magistrato accenderne una, mentre un'altra era appoggiata sul portacenere". E' il racconto di Pippo Giordano nel libro "Il Sopravvissuto" (Castelvecchi editore) scritto col giornalista Andrea Cottone da oggi disponibile in libreria. Ex ispettore della Dia, oggi in pensione, Giordano è stato in prima fila nella lotta alla mafia nei suoi ruggenti anni '80 e negli anni '90, curando la gestione dei pentiti. Come nel caso di Mutolo che gli ha dato l'opportunità di rincontrare Paolo Borsellino dopo tanti anni dalla comune esperienza a Palermo. "Non ci vedevamo da quasi dieci anni – si legge nel testo - Quando arrivo e lo vedo, non dico una sola parola. Ci stringiamo la mano e subito dopo ci abbracciamo. Siamo rimasti in silenzio a guardarci negli occhi per un po'. Non c'era bisogno di aggiungere niente, sapevamo che il nostro compito era molto gravoso: dovevamo dare un nome agli autori della strage di Capaci".

Per quella dissertazione sui nomi di Contrada e Signorino, il pentito Mutolo si è beccato un bel calcio negli stinchi da Giordano, perché stava disattendendo il programma. E "terminato l'interrogatorio, comunque, ci siamo congedati. Borsellino mi ha salutato con una stretta di mano e mi ha dato appuntamento alla settimana seguente". Solo che era già troppo tardi. "Lunedì ero nuovamente al centro operativo di Roma, ho incontrato Mutolo, con le lacrime agli occhi ci siamo abbracciati e fiondati sul lavoro. Dovevamo continuare e completare al più presto gli interrogatori. Avevamo al collo il fiato dell'urgenza, abbiamo perso il conto delle volte che abbiamo cambiato posto e dei pranzi saltati. Se la strage di Capaci destava il sospetto che fosse coinvolta qualcosa oltre Cosa nostra, quella di via D'Amelio ne dava quasi la certezza".

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