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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2012 alle ore 08:19.

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Una gara di un giorno. Lunga l'equivalente della traversata dello Stretto di Messina a nuoto. Più un percorso in bicicletta come da Bologna a Siena. E, per finire, la fatidica maratona. Da soli. Senza sosta. Solo contando sulle proprie forze – è vietato, ad esempio, andare a ruota in bici, pena la squalifica –. Dall'inizio alla fine. Questo è l'«Ironman».
«Nuota 3,8 km. Pedala 180,2 km. Corri per 42,2 km! Vantati per il resto della tua vita». Nella presentazione del primo «Ironman» della storia, il 18 febbraio 1978, c'era scritta questa frase. Si iscrissero 15 atleti. Solo dodici giunsero in fondo. La leggenda vuole che tutto sia nato da una scommessa tra tre marines ubriachi durante la premiazione di una corsa podistica, alle Hawaii. I tre all'arrivo, tra fiumi di birra, discettavano della disciplina sportiva più dura di tutte. John Collins – uno dei tre – propose una nuova forma di gara che fosse il risultato di tre prove durissime già esistenti: la «Waikiki Roughwater» (2,4 miglia di nuoto), più la «Around Oahu Bike Race» (112 miglia in bici) e la «Honololu Marathon» (26,6 miglia di corsa). Risultato. Oggi in tutto il mondo si contano 25 «Ironman», dall'Australia al Brasile, passando per il Sud Africa e l'Europa. Il più famoso è la finale mondiale a Kowa, nelle Hawaii, dove questa pazza sfida sportiva ha avuto origine. La scommessa dei tre marines ubriachi è diventata una multinazionale.
Zurigo, le 6 di mattina di una domenica d'estate. Sono uno dei 1.712 iscritti all'«Ironman Switzerland». Il cielo è grigio e l'acqua del lago dello stesso colore. Piove sempre qui, dicono. Il meteo anche oggi, laconico, prevede: piogge brevi e schiarite. E alle 5 della sera un temporale. Nell'aria si sente una strana tensione, mista a paura. Non sono mai stato particolarmente sportivo. Solo, a un certo punto della vita, per resistere ai ritmi frenetici del lavoro, allo stress di tutti i giorni, «contro il logorìo della vita moderna» al Cynar ho preferito la corsa. Da allora ho terminato una ventina di maratone, attraversato a nuoto il Lago Maggiore, conquistato i passi dolomitici in bici, concluso il mezzo «Ironman di Pescara»...
E poi? Eppoi: eccomi qui.
Da una settimana mi sveglio di notte pensando che non posso farcela, alla possibilità di non riuscire a stare dentro il tempo massimo (16 ore). Insomma, sei mesi di preparazione, di allenamenti quotidiani, di tempo rubato alla famiglia, al lavoro, le volte che faceva freddo e quelle in cui non avevi proprio voglia di uscire a correre nel gelo, che rischiano di finire nel cestino.
Il mio obiettivo? Arrivare e non morire d'infarto. Eppure, a pochi minuti dallo start, davanti a una sfida del genere, niente è scontato. Lo sanno tutti i compagni di ventura, arrivati da una cinquantina di nazioni, che in questi minuti stanno terminando il rito della preparazione della bici e dei cambi da una frazione all'altra. Sono tante, troppe le variabili. I minuti passano. Una voce al microfono distoglie dai pensieri e ci invita ad avvicinarci alla partenza. Via, si va. La muta, gli occhialini da nuoto e una cuffia. Partono prima i 20 pro e poi noi comuni mortali: 1.712 uomini e donne che si tuffano nello stesso momento in uno specchio d'acqua. Aspetto 30 secondi prima di gettarmi in acqua, cercando di trovare un varco tra le braccia e la schiuma che ribolle. Comincio a nuotare, una bracciata dietro l'altra. Ci sono tre boe da passare. A metà percorso si esce su un isolotto, ci si rituffa e si devono passare altre tre boe prima di arrivare alla fine. Temo di uscire dall'acqua fuori tempo massimo (due ore) e mi concentro sul punto dove andare per non sbagliare direzione, sulle bracciate e la respirazione. Ho calcolato che dovrei farcela in un'ora e 40 minuti, più o meno. Continuando a nuotare sempre, senza fermarsi mai. Ogni tanto ci sfioriamo con qualcuno. Ma botte no, non ne prendo. Ci sfioriamo con un rispetto quasi religioso. Rispetto per la fatica. Lentamente, boa dopo boa, il cronometro mi dice che siamo vicini alla meta. Esco dall'acqua dopo un'ora e trenta di nuoto. Meglio del previsto.
Mi cambio, indosso il casco, il numero, la maglia della mitica Pro Patria di Milano, le scarpette. Inforco la bici e comincio a pedalare lungo la strada che costeggia il lago. Il percorso prevede due giri da 90 km con quattro salite sulle colline attorno a Zurigo. Due salite hanno un nome che è tutto un programma: , la bestia, e Heartbreak Hill, la collina dell'infarto. Cerco di andare avanti controllando le pulsazioni del cuore dal cardiofrequenzimetro in modo da avanzare all'80% della potenza, il segreto per non scoppiare. E poi inizio subito a bere e a mangiare per non andare in riserva di energia. Il primo giro, a parte un temporale sulla seconda salita, va avanti liscio. Chiudo in tre ore e pochi minuti a 30 km di media. All'inizio del secondo giro però comincia a grandinare. Vengono giù chicchi d'uva ghiacciati, tanto grandi che non riesco a tenere le mani sul manubrio dal dolore dei colpi. Procedo da solo senza vedere più niente. Mi viene voglia di mollare, è troppo dura. Però continuo a pedalare, qualcosa dentro scatta, e continuo. Fino a quando la grandine smette e ricomincia la salita...
La stanchezza comincia a farsi sentire. E con lei anche i primi dolori muscolari. I chilometri ancora da fare diventano eterni. Mi succede sempre anche nelle maratone, quando non ce la fai più a un certo punto scatta qualcosa, un'energia interiore. Io lo chiamo «il mio rosario dinamico», una sorta di benessere che arriva quando sei morto e tu continui, continui imperterrito ad andare avanti lieve senza sapere e senza chiederti da dove vengono le forze. Termino la seconda parte della gara e sono le tre del pomeriggio. Non ho mai apprezzato come ora la sensazione che si ha quando si mettono i piedi al suolo. Adesso c'è il sole. E tutta la maratona ancora da fare. Esco dai box e prendo a correre con il mio ritmo solito. Il fiato c'è. Ma le gambe non vanno. E ci sono quattro giri da fare attorno al lago. Ci sono dei ponti pedonali da attraversare e quasi nessuno riesce a fare la piccola salita di corsa. Tutti di passo. Sembriamo un esercito di fantasmi che continua ad andare avanti in questa strana gara che somiglia ad un'agonia. Mi incitano i miei. «Non mollare! Dai, vai avanti papà». Cammino e poi corro e poi cammino e poi corro di nuovo. Tutto di testa. All'ultimo giro, quando mancano 10 km incontro un inglese, Lee, che sta peggio di me. Barcolla. Mi fermo, gli dico: «Andiamo all'arrivo insieme».