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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2012 alle ore 08:17.

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Sembra oggi a molti di vivere in una società in cui la vergogna non esiste più, dove la sfacciataggine, la corruzione, la violazione delle leggi e della buona creanza sono diventate normali. Una società in cui chi non si adegua alla prassi del «così fan tutti», diventa vittima di una «vergogna rimbalzata», accusato di essere un ridicolo moralista o un inopportuno guastafeste.
Per rendere perspicuo un simile capovolgimento nella valutazione della vergogna, da attenta osservatrice e da acuta sociologa partenopea, Gabriella Turnaturi fa ricorso al lessico della sua città: l'«espressione "favorire l'infrazione", molto diffusa a Napoli, che si usa quando qualcuno o molti guidano contromano, vuol dire proprio questo: visto che la maggioranza guida contromano, tanto vale lasciarli passare altrimenti si blocca definitivamente il traffico e nessuno passerà più». Tale schema si applica ai più diversi contesti della vita politica e (in)civile, ad esempio al condono degli abusi edilizi o alla relativa tolleranza nei confronti dell'evasione fiscale.
Ma le metamorfosi subite dalla vergogna (che come tutte le emozioni non si cancella, ma si disloca) si manifestano anche nei rapporti interpersonali, nella cancellazione dell'altro dovuta a un narcisismo ormai di massa. In una nitida fenomenologia della vita quotidiana (che trova conferma nell'esperienza di chiunque si trovi in uno scompartimento ferroviario), l'autrice constata come, nel raccontare senza pudore i fatti propri, «lo sguardo vacuo di chi parla al cellulare, quando si posa su di noi, non ci vede, non ci mette a fuoco, perché siamo presenze fantasmatiche. Per quello sguardo noi siamo inesistenti, non contiamo nulla, proprio come quando gli aristocratici si denudavano senza alcuna vergogna dinanzi ai loro servitori, perché questi erano socialmente inesistenti, erano delle non persone».
Vergognarsi non significa più desiderio di nascondersi, di scomparire. La paura di perdere la faccia è, al contrario, spesso sostituita dalla sfacciataggine, dall'esibizione di se stessi, dalla provocazione, perché si sa che, nella logica di "favorire l'infrazione", un simile atteggiamento non solo è largamente approvato, ma perfino elogiato. È considerato vergognoso vergognarsi di queste cose.
Tutto ciò accade perché la nostra società non è coesa, perché la vergogna «non funziona più come una sentinella del legame sociale», che lancia un allarme e ammonisce i singoli quando entrano in dissonanza con i valori della comunità cui appartengono. Oggi «l'individuo Ikea» è tendenzialmente scisso, modulare, composito; è inserito in più sfere di vita, si esibisce su palcoscenici diversi; simula tante autobiografie, intriso com'è di fantasie di alterità; sogna quello che potrebbe essere e non si sente non più vincolato a un io fornito di costanza e di consistenza. A sua volta, la società è frammentata, dotata, rispetto alla tradizione, di ideali, aspirazioni e modelli di condotta scarsamente condivisi.
Si afferma una «vergogna fai-da-te», in cui ognuno stabilisce di cosa ci si debba vergognare. O, meglio, dato che la vergogna è legata all'interazione sociale (in altri termini, ha bisogno per esistere del giudizio altrui e oscilla tra comportamenti mimetici e ricerca di autenticità), i motivi che inducono a provare questa emozione cambiano rispetto al passato.
Ci si vergogna quindi di come si appare fisicamente ed esteriormente agli altri, dei peli superflui, dei vestiti non "griffati", di non aver avuto successo nella carriera, di non praticare lo stile di vita glamour esibito dai rotocalchi, di non essere riusciti a diventare ricchi o famosi. La moltiplicazione dei motivi minori o maggiori per vergognarsi rende alla fine la vergogna più "leggera", più sopportabile, smussandone la serietà e snervando così il desiderio di ciascuno di porre rimedio alla propria inadeguatezza rispetto a quello che potrebbe diventare.
Ci può, tuttavia, essere – sostiene Gabriella Turnaturi – anche un buon uso della vergogna, in quanto, nell'accrescere la consapevolezza dei nostri limiti, essa ci spinge a rinsaldare i legami con la società e con il mondo. In particolare, dato che la vergogna si manifesta di solito in rapporto ad altre passioni (come l'indignazione, «ira nobile» che si attiva anche quando l'offesa riguarda gli altri), il considerarla in tale contesto aiuta a comprenderne meglio il senso.
Vergogna e indignazione sono entrambe passioni di mutamento, che nascono dalla percezione di un'ingiustizia subita, da una dolorosa ferita inferta alla propria dignità e che possono pertanto rafforzare l'io, inducendolo a un miglioramento di sé e della società. In rapporto all'indignazione, la vergogna possiede, infatti, anche una valenza politica. Lo aveva già notato Marx in una lettera a Ruge del marzo 1843: «Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni. La vergogna è già una rivoluzione è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa. E se un'intera nazione si vergognasse realmente, diventerebbe simile a un leone, che prima di spiccare il balzo si ritrae su se stesso».
In questo godibile libro veniamo accompagnati in una sorta di indagine fisionomica sui vari volti della vergogna, sul succedersi delle sue metamorfosi e sulle ragioni per prenderla sul serio.
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Gabriella Turnaturi, Vergogna. Metamorfosi di un'emozione, Feltrinelli, Milano, pagg. 186, € 18,00

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