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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2012 alle ore 08:14.

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Quando, nel 1950, il telegrafista Jørn Riel approdò sull'isola di Elle, in Groenlandia, aveva in mente di conoscere se stesso. La solitudine e la natura sono buoni alleati a quest'impresa e lì, nei pressi dell'Ultima Thule, poteva essere certo di averli dalla sua parte. Veniva da Odense, la città danese cui si associa il nome di Hans Christian Andersen, il narratore per eccellenza. Non so se, per contagio, il diciannovenne telegrafista avesse già in mente di fare lo scrittore, o invece fosse sollecitato dall'esempio di Knut Rasmussen, l'antropologo danoeschimese dalla risata contagiosa e dal fascino carismatico, morto nel 1924, che aveva dedicato la vita agli Inuit, il piccolo popolo che chiude come un nastro il Nord del mondo. Di fatto Riel rimase sedici anni in questa landa desolata e non fu la disperazione a portarlo verso la scrittura, quanto piuttosto la lenta scoperta di un mondo immenso, di cui raccontare.
Per chi voglia mettere a fuoco i primi passi di questo percorso, suggerisco di leggere «Lo zigolo delle nevi» (in Safari artico, edizioni Iperborea), un racconto paradigmatico. Così, qualche tempo dopo, sarebbe stata determinante la sua attenzione al mondo Inuit, sfociata nel romanzo Prima di domani, dedicato al rapporto affettivo e pedagogico di una nonna inuk con il nipote, gioiello di misura e di profondità, ispirato dal ritrovamento casuale, su una piccola isola groenlandese, del cranio di una donna adulta e dello scheletro di un bambino. Era in quel caso l'etnologo Riel a passare con maestria dall'osservazione scientifica all'invenzione. Accanto agli autoctoni groenlandesi però Riel incontrò nei suoi anni artici soprattutto il popolo dei cacciatori danesi e norvegesi di stanza nel Nordest dell'isola, gente legata alla madre patria dal filo della nave che annualmente portava loro notizie dal Vecchio mondo, gente abituata a vivere in condizioni spesso difficili, se non proprio impossibili; erano uomini capaci di adattarsi a una totale autonomia e, naturalmente, alla solitudine o alla compagnia ristretta di un altro con cui dividere tempo e spazio, entrambi abbondanti ma non sempre facili da gestire. L'epica era lì, a portata di mano del narratore; ma Riel fece una scelta diversa, immaginò il comico come l'antidoto all'enfatizzazione. Questi uomini diventarono i protagonisti antieroici delle sue storie, e li ritroviamo anche in quest'ultimo Viaggio a Nanga, che in forma di romanzo ma in realtà componendo un collage di storie e di caratteri, rimette in scena il teatro di questa microsocietà.
Il lettore di Riel li conosce già tutti, tornano volta a volta nei suoi racconti, come il commissario Maigret e la sua squadra del quai des Orfrèves nei gialli di Simenon. Qui, come nelle precedenti storie, sono protagonisti di piccole, paradossali situazioni che l'ambiente amplifica e nello stesso tempo riduce a una anomala normalità. Nella terra della lunga notte e del lungo giorno, i concetti di normalità e anomalia hanno valenze diverse dalle nostre. Si racconta di distanze incommensurabili da coprire con le slitte e i cani, ma anche con la bicicletta, bevute enormi e sbronze colossali di birra e acquavite che spiazzano la percezione dello spazio e del tempo. Ma soprattutto opera la grande mano dell'immaginazione, che lavora nelle teste di questi solitari a costruire realtà alternative, quali la bella Emma (in La Vergine fredda), ragazza meravigliosa e dolcissima che appartiene, a turno, alla fantasia di tutti e intorno alla quale si muove una rigorosa contrattazione con scambio di merci per acquisire il diritto esclusivo di pensarla. Chi voglia cercare nei racconti di Riel gli eroi dell'Artico, si trova un po' spiazzato e persino a disagio in una cornice antitetica, dentro la quale anche il lettore è catapultato; sperimenta in queste pagine un altro mondo, di cui percepisce la dinamica attraverso quello che i danesi chiamano skrøne, qualcosa come una verità che pare una frottola e una frottola che potrebbe essere vera.
È il gusto del raccontare che tiene banco e contrasta il silenzio artico, e insito nel gusto del racconto si indovina il narcisismo del narratore, quel gratificante dominio sugli altri, soggiogati dall'attesa della sua parola. Così in Viaggio a Nanga, Riel può costruire un audace ponte aereo tra l'inlandsis groenlandese e il Nanga Parbat pakistano, tessendo un'improbabile rete che intrappola due vite così distanti tra di loro. E, più ancora che con la rocambolesca costruzione di una stilizzata storia d'amore, ci stupisce con l'apparizione di un fantasma che, nato da un rimorso come il Banquo di Macbeth, si affianca al suo "perseguitato" con fare collaborativo e salvifico. Con ironia, con leggerezza qui si parla di vita e di morte, ma in questo mondo visto dalla lente deformante del comico, Riel insedia un lirismo in minore, giocato sul fascino della natura e sul suo dominio assoluto, uno spettacolo che abbatte ogni umana retorica.
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Jørn Riel, Viaggio a Nanga, traduzione e postfazione di Maria Valeria d'Avino, Iperborea, Milano, pagg. 196, € 13,50

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