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Questo articolo è stato pubblicato il 25 luglio 2012 alle ore 13:28.

Avesse avuto meno grilli per la testa, Amy Winehouse sarebbe indiscutibilmente diventata una delle cinque più grandi cantanti soul di tutti i tempi, di sicuro la numero uno tra le bianche. Avesse avuto meno grilli per la testa, Amy Winehouse non sarebbe stata Amy Winehouse. Perché ciò che l'ha resa sublime, oltre al timbro di voce da predestinata e alla rara capacità di «sentire» le note blue quando cantava, è proprio quel particolarissimo crossover stilistico ed esistenziale che in occasione del suo debutto, nel 2003, fece gridare al miracolo. E che il 23 luglio del 2011 la portò a collassare nel suo appartamento di Camden Town.

Aveva la sapienza delle grandi interpreti di rhythm and blues e l'attitudine punk. Capigliatura cotonata e tatuaggi che neanche David Beckham. Un po' Etta James, un po' Sid Vicious. Come la prima ha convinto critici e commosso pubblici portando ben piantate nel cuore le stimmate dell'infelicità sonora. Come il secondo, s'è bevuta e fumata l'impossibile, credendo così di ubriacare la depressione, addormentare il mostro una volta e per sempre. Fatale errore di calcolo che l'ha fatta entrare nel sempre più affollato club delle rockstar morte a 27 anni.

L'exploit post mortem. In queste circostanze, i più contenti sono i panciuti signori del vinile: nello stretto spazio che ci separa dalla morte della Leonessa del soul britannico, infatti, sono stati venduti 1,7 milioni di dischi a sua firma. Tutto grasso che cola in tempo di crisi dei consumi musicali. In particolare si segnalano le performance dell'esordio «Frank» - album detestato dalla povera Amy Jade per la produzione di Salaam Remi giudicata distante da quelle che sarebbero state le sue personali scelte - e del capolavoro «Back to Black» (2006). Le due opere sono finite in cima alle classifiche delle vendite nelle settimane immediatamente successive alla morte. Un bel fiume di bigliettoni nelle casse della Island, un tempo etichetta indie di riferimento della musica reggae, oggi controllata della multinazionale Universal. In circostanze del genere, come dicono quelli che ne capiscono, tocca capitalizzare gli asset: a novembre dell'anno scorso è uscito per esempio «Lioness: Hidden Treasures», raccolta di inediti, cover e alternate tracks non proprio imperdibile. Nella circostanza specifica, più mucca da mungere che una Leonessa.

Papà è in viaggio d'affari. Quando perdiamo un artista, di cose strane e di dubbio gusto ne succedono a bizzeffe. Esempio: finché Amy Jade era in vita, un ex tassista inglese di mezza età raccontava in giro che il musicista di maggior talento in famiglia era lui e lo avrebbe dimostrato incidendo un disco di standard alla Frank Sinatra. Si chiamava Mitch Winehouse ed era il papà della Nostra, spesso artefice di entrate a gamba tesa sulla qualità dei dischi e la sregolatezza di vita della congiunta. A un anno dalla di lei scomparsa, ha dato alle stampe il libro «Amy, mia figlia» (Bompiani, euro 17,50, pp. 342) in cui rende pubbliche pure le foto delle vacanze al mare, magnifica la mission della fondazione benefica a lei intitolata, annuncia l'imminente uscita di altri due album d'inediti (sempre per la famosa storia della mucca da mungere) e si commuove: «Avrei voluto morire io al posto di mia figlia». Ma starle un po' più vicina quando era sola e soffriva?

L'amore è un gioco a perdere. La verità è che Amy ha sempre avuto un rapporto problematico con gli uomini della sua vita. Nessuno escluso. Per 17 mesi è stata sposata col cantante Blake Fielder-Civil e, per citare un poeta bolognese, «eran botte/ Dio, che botte». Relazione pericolosa tra alcol, crack, bottigliate in testa, visite in galera e comunità di recupero. Alla fine della storia, lei dichiarerà: «Con Blake era solo sesso». Il nome di lui non verrà incluso nel testamento e papà Mitch non lo vorrà nemmeno presente ai funerali, definendolo «la vera droga di Amy». Blake non si dà pace e dice ancora di amarla. Non che il regista Reg Traviss, ultimo compagno della cantante, le abbia saputo assicurare maggiore tranquillità sentimentale. Per capire il tipo: a settembre prossimo dovrà sostenere un processo per una doppia accusa di stupro. Come si fa a dare torto a Amy quando canta «Love is a losing game»?

La Regina di Camden. Lasciando infine il gossip fuori dalla porta (esercizio faticoso nel caso di Winehouse), resta la musica. Due album di grande intensità, quelli che ha registrato in vita. Capaci di spingere oltre la lezione del nuovo soul britannico, quello delle Joss Stone e delle Corinne Bailey Rae. Il suo era un approccio musicale «classico»: quello della Motown e della Stax, di Tammi Tarrell («Tears dry on their own» non a caso cita «Ain't no mountain high enough») e Carla Thomas. Classici «Frank» e «Back in black» che non contengono gli orrendi sintetizzatori e gli intermezzi hip-hop che hanno fatto la fortuna di molte colleghe. Ma contengono liriche ancora più «explicit» di quelle di tanti sopravvalutati rapper. L'avete mai sentita una cantante soul rispondere «no, no, no» a chi le consiglia la disintossicazione («Rehab») e poi stramaledire il consigliere di turno con raffiche di «f…k»? Amy era così e, miracolosamente, restava elegante anche quando imboccava il trivio. Ma si sa che il trivio più elegante del mondo sta a Camden Town. E la Winehouse ne resterà per sempre la regina.

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