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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2012 alle ore 08:18.

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Dieci giugno 1609. I padri Crociferi di San Camillo de Lellis a Messina, meglio noti come Padri "de ben morire", accolgono la pala d'altare della nuova chiesa dell'Ordine, profumatamente pagata a Michelangelo Merisi da Caravaggio, "cavaliere gerosolimitano", dal ricco banchiere Giovan Battista de' Lazzari. Alla consegna del quadro, di dimensioni colossali, i Crociferi si sentono in dovere di emettere regolare ricevuta, specificando che si sarebbero tenuti l'opera, "non obstante" la richiesta fosse di una "Vergine Maria, San Giovanni Battista ed altre figure", e non di una "Resurrezione di Lazzaro con Nostro Signore, le Sante Marta e Maddalena ed altre figure nel numero di tre", come si erano visti recapitare. E' qui che inizia il mistero di uno dei dipinti più affascinanti, non solo del catalogo di Caravaggio, ma della stessa storia della pittura del Seicento.
Come mai questo insolito cambio di iconografia? Il messinese Francesco Susinno, biografo settecentesco del Merisi, attribuisce al pittore stesso la scelta di Lazzaro. La critica moderna ha invece ipotizzato un accordo tra le parti in causa, che avrebbero deciso per un tema di pertinenza assoluta alla regola dell'Ordine ospedaliero, in sintonia con il nome del mecenate, e certamente nelle corde di Caravaggio per il quale, in fuga da Malta, con una taglia sulla testa, il pensiero della fine doveva essere ormai abituale. Una cosa pare certa: al momento del primo contratto del Lazzari con i Crociferi, il 6 dicembre 1608, il pittore non si trovava ancora in città. Di fatto in non più di sei mesi, ma probabilmente meno, l'opera venne concepita e confezionata. Nell'estate del 1609 un ammiratore messinese di Caravaggio si esprime senza mezzi termini: "Questo pittore ha il cervello stravolto". E così, dunque, è lecito figurarselo alle prese con il Lazzaro. Il restauro magistralmente condotto dall'Istituto Superiore Centrale per il Restauro, nell'ambito di un progetto che prevede la revisione degli interventi degli anni Cinquanta (in linea con le direttive di Giovanni Urbani), aiuta a comprendere meglio la genesi dell'opera. Dodici teli, cuciti insieme per il lungo, più uno orizzontale, rappresentano il supporto del capolavoro. L'ambiente messinese non doveva dunque essere attrezzato: a Roma Caravaggio poteva infatti trovare tele gigantesche tessute in un unico pezzo (quella con la quale è realizzata la Morte della Vergine, ad esempio). Liberato il film pittorico dalla vernice alterata utilizzata nel restauro del 1951 (il primo di quattro, poiché, significativamente, si intervenne sulla tela fin dal 1670, nel tentativo di alleggerirne l'oscurità), si scopre che, per la preparazione, il pittore sovrappose due strati di terra bruna mescolati a un'argilla di cui è ricco il fondale marino siciliano. Per guadagnare tempo, Caravaggio andava a risparmio, utilizzando la sola preparazione per l'intera zona bruna sovrastante la scena in primo piano: in pratica quasi la metà della tela. L'analisi tecnica conferma dunque il dato biografico: il pittore, a Messina di passaggio, dipingeva rapidamente con quello che si trovava tra le mani. In questa povertà di materiali risulta ancora più evidente la straordinaria capacità pittorica dell'artista. La luce costruisce le figure. Il giovanile volto di Lazzaro è tracciato con una sola pennellata bianca. E il cuore del dipinto, la mano destra del morto protesa verso Cristo, che si apre in una scossa di vita, vertice pittorico ed emotivo di intensità assoluta, è miracolosamente restituita con un'unica, sapientissima lama di luce. Poco importa se il restauro non ha potuto dire l'ultima parola sull'eventuale presenza di aiuti, o se si continua a discettare su quale delle due figure femminili sia Marta e quale Maddalena. Il tema per Caravaggio è un altro: il dramma fisico, mentale, e spirituale del trapasso di un uomo da morte a vita, una seconda nascita, dove l'accento non è posto tanto sulla potenza divina di Cristo, che brilla nel gesto imperioso in uno splendido controluce, ma sull'essere umano che, al centro della scena, rivive e riprende forma, lasciando a terra le ossa aride nella "funerea natura morta di tibie e di teschi" in primo piano.
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