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Questo articolo è stato pubblicato il 03 agosto 2012 alle ore 12:30.

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Squarci di verità undici anni dopo. Una verità terribile, ancor di più perché proveniente dai ricordi e dalle testimonianze di uno degli indubbi protagonisti di quella triste e oscura pagina di storia: la macelleria messicana della Diaz durante il G8 di Genova.

A parlare è Vincenzo Canterini, l'ex comandante del primo Reparto mobile di Roma, condannato dalla Cassazione a tre anni e tre mesi per falso. Oggi, l'ex superpoliziotto ammette: «La Diaz fu una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un'immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti».

L'ordine: trovate le armi e fate scattare le manette
Il blitz nell'istituto scolastico – che Canterini dice di aver tentato di evitare suggerendo inutilmente di sparare lacrimogeni all'interno della struttura per poi controllarne gli ospiti in tutta sicurezza nel cortile - «serviva esclusivamente ad accollare le armi a qualcuno da arrestare» e la stessa «convocazione di massa (degli agenti di polizia, ndr) alla Diaz non aveva spiegazione se non per soddisfare la collera repressa di chi, per due giorni e due notti, le aveva prese senza darle». E, alla fine, dei duecentocinquanta antagonisti arrestati, in quei giorni, appena dieci sono stati condannati per un disastro cittadino da sessanta milioni di euro.
La testimonianza-choc è contenuta nel libro «Diaz – dalla gloria alla gogna del G8 di Genova» (Imprimatur editore), scritto dai giornalisti Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo. Un racconto che svela numerosi retroscena di quella stagione di violenza, iniziata con gli scontri di piazza di Napoli del marzo 2001, in occasione del Global Forum, e terminata con l'uccisione di Carlo Giuliani in piazza Alimonda.

Gli accordi violati con le «tute bianche»
Canterini rivela un accordo (finora rimasto segreto) relativo a una sorta di trattativa intavolata dalla polizia di Stato con le tute bianche. Un accordo finalizzato a fare un po' di sceneggiata, durante il vertice internazionale, senza epiloghi tragici. Un patto che avrebbe dovuto trasformare la manifestazione in una parata e nulla più. «C'abbiamo un mezzo accordo con gli antagonisti. Per noi va bene che facciano casino, che si incazzino, che facciano scena – disse un alto papavero del ministero dell'Interno al comandante del I Reparto mobile, che riporta il colloquio nel libro –. Ci sta. Non c'è problema che sfilino per le strade urlando slogan e minacce. E va bene pure che tra noi ci facciamo, come dire… una cosa cavalleresca. Ci picchiamo, ce le diamo come al solito. Ma gliel'abbiamo detto e ridetto: state lontani dalla zona rossa sennò so' mazzate serie».
La storia andò diversamente, com'è tristemente noto: i black bloc entrarono in scena e iniziarono una durissima contrapposizione con le forze dell'ordine (i carabinieri e gli agenti del VII nucleo speciale antisommossa, in particolare) riuscendo a forzare i cordoni di sicurezza attorno alla zona rossa.

I black bloc e le veline dei Servizi segreti
Nel libro c'è spazio anche (e soprattutto) per i black bloc. «La battaglia col blocco nero era qualcosa di incredibile, impensabile, indescrivibile. Erano tanti, troppi. Organizzati, ognuno con un ruolo, un'incombenza. Professionisti come noi. Si spostavano a elastico, si allungavano e accorciavano le linee d'offesa: un incubo. Sapevamo che gli antagonisti, e gli autonomi, s'erano addestrati in un paio di centri sociali di Padova e Torino. Li avevamo anche visti allenarsi allo stadio Carlini di Genova. Ma le tute nere, quelle toste e preparate, arrivate dalla Spagna e dalla Grecia, dalle banlieues francesi e dai quartieri periferici londinesi, erano tutt'altra cosa».
Arriveranno poi i processi, le polemiche, le richieste di commissioni parlamentari d'inchiesta. Arriverà la verità giudiziaria, ma quella storica è un capitolo che (ancora) non è stato scritto.

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