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Questo articolo è stato pubblicato il 03 agosto 2012 alle ore 15:12.

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Che giornata a Locarno. Il festival, dopo un inizio diesel, ha calato un poker niente male. Sorprende e piace, nel Concorso internazionale, Jack and Diane, storia d'amore molto romantica finché le prime difficoltà non allontanano in maniera imprevedibile le due adolescenti protagoniste: Jack, ragazza maschiaccio ruvida e con un segreto nell'anima e appunto Diane (Juno Temple), incantevole biondina dai tratti fiabeschi, come recitazione e acconciature. Irresistibili, in tutti i sensi, visto che l'amore a un certo punto diventa "mannaro" e la tenerezza lascerà il posto a una deriva quasi horror. Di sicuro tale non è, però, il bacio con cui Kylie Minogue, nel film, scalda la platea del festival. E c'è da giurare che anche stasera la temperatura si alzerà parecchio perché la popstar - qui presente pure in un breve cammeo nell'Holy Motors di Leos Carax- calcherà il palco di Piazza Grande.

Molto hot è anche il nuovo film fuori concorso di Steven Soderbergh, Magic Mike, l'ennesima dimostrazione che da quando il buon Steven, autore di Sesso, bugie e videotape e Traffic, minaccia di lasciare il cinema, si lascia andare a un approccio divertito, divertente e comunque arguto. Se in Haywire rovesciava lo stereotipo dell'action con una splendida e grintosissima protagonista che le dava a maschi e femmine di santa ragione, qui entra in un night club gestito da un Matthew McCounaghey, vicino al mezzo secolo ma sempre più bello, palestrato e soprattutto bravo, nel ruolo di un pigmalione di giovani stripper. Channing Tatum guida una squadra di spogliarellisti - lo faceva davvero, prima di diventare un attore affermato - con abilità fisica e un talento attoriale che cresce a ogni film. Il film, uno dei tanti che si diverte a rovesciare stereotipi nell'era Pére, mette in scena come mai forse prima d'ora la sensualità maschile, il cameratismo e il disagio di una gioventù persa tra desideri materiali e inevitabile precariato. E lo fa con grande ironia e bravura. Si diverte anche a mostrare come la complessità dell'immaginario femminile, a volte, di fronte ad addominali scolpiti e a strip ben fatti, diventi elementare e banale come quella maschile (cowboy, pompieri, Tarzan e simili son poi cosí diversi da infermiere, insegnanti, etc?). Un gioco che è valso un superincasso al regista premio Oscar, di fronte a un budget di poco superiore ai 7 milioni di euro. Il solito genio, che continua il suo percorso di rovesciamento dei generi con leggerezza e la consueta straordinaria capacità di girare immagini e scene di rara bellezza. Uomini nudi compresi.

Di tutt'altro tenore è Ruby Sparks, che fa tornare insieme i registi Jonathan Dayton e Valerie Faris con l'attore Paul Dano. Dopo Little Miss Sunshine, che proprio qui a Locarno cominció la sua scalata al successo, eccoci di fronte alla storia di un enfant prodige della letteratura tormentato dal suo unico straordinario best seller, una sorta di Salinger ancora più nerd. Tutti lo definiscono genio, ma lui non sa come riempire le pagine bianche. Finché non gli appare in sogno Zoe Kazan, la donna perfetta, almeno per lui (che, in uno straordinario cortocircuito tra fiction e realtà, qui è anche sceneggiatrice). Ricomincia a scrivere, la sogna, la (de)scrive, se ne innamora, ne diventa dipendente. Finché non se la trova in cucina, in carne e ossa. Finalmente vera: una magia che non sa spiegarsi e che per lui vuol dire felicità. Ma presto quel suo personaggio prende consapevolezza e indipendenza e lui si trova nella drammatica situazione di voler essere padrone o compagno. Non resiste, e la fa diventare un burattino, scoprendo la tentazione di molti uomini, scrittori e non: rendere chi ti sta vicino una marionetta. Pur con un finale troppo catartico, quest'opera è un gioiello grazie ai sottotesti profondi sul rapporto uomo-donna e scrittore-personaggio e a una performance di Zoe Kazan semplicemente maiuscola (il momento del disvelamento è una prova artistica e fisica eccezionale).

Chiudiamo con una perla del concorso internazionale, Image Problem, in cui i registi Simon Baumann e Andreas Pfiffner partono alla (ri)scoperta della loro Svizzera. Lo fanno perché convinti che il paese sia vittima di stereotipi (ancora loro) negativi, dal segreto bancario in giú, ma scoprono che, forse, è anche peggio. Tra egoismi e xenofobia, ci portano in viaggio in un paese specchio della (in)civiltà moderna del mondo occidentale. E lo fanno con sorridente lucidità e assenza di pregiudizio. Provarono a farlo per l'Italia, con successo, anche Lorenzo Buccella e Vito Robbiani con Sorelle d'Italia. La differenza è che qui la (auto)critica di un paese e forse di una generazione va nel festival piú importante, mentre da noi la (auto)censura di selezionatori festivalieri, televisivi e cinematografici ha consegnato a quel piccolo gioiello un percorso difficile, che, non a caso, ha avuto quasi solo tappe all'estero.

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