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Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2012 alle ore 08:21.

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Nel migliore dei mondi possibili, dove lo sport è l'antidoto alla guerra e la letteratura è nobile otium, Gianni Brera incontra Pindaro sugli scaffali di casa mia e lo invita a un picnic nell'Oltrepò per la prossima vendemmia. È anno di Olimpiadi, dunque bisesto, e può succedere di tutto. Anche di passare il tempo a leggere in giardino libri di sport. Ma niente cronaca. Solo racconti e romanzi. Storie inventate. Storie di giornalisti che si cimentano con la letteratura e storie di scrittori che cercano di cogliere, a parole, l'attimo fuggente.
Tra libri pubblicati per la prima volta e vecchie conoscenze ritradotte o ristampate di fresco, c'è n'è per un paio di settimane. Metto davanti Il professionista (1958) di W. C. "Bill" Heinz, finora inedito in Italia (editore Giunti) e a suo tempo lodato da Hemingway: «È l'unico bel romanzo sulla boxe che abbia mai letto». Heinz aveva iniziato la carriera come corrispondente di guerra ed è anche uno dei due autori del famosissimo M*A*S*H*. Degno erede di Damon Runyon (1880-1946) e Ring Lardner (1885-1933), nonché collega, nel secondo dopoguerra, di grandi commentatori come Red Smith, Jimmy Cannon e Frank Graham («Ma lui era il migliore»), Heinz lavorò pochi anni come cronista al «New York Sun» e quando il quotidiano cessò le pubblicazioni fu il primo giornalista sportivo a scrivere come freelance esclusivamente per i magazine mensili.
Lunghi racconti che aprirono la strada al cosiddetto «New Journalism» di Jimmy Breslin, Truman Capote, Norman Mailer, Gay Talese, Hunter S. Thompson e Tom Wolfe. Maestro nell'uso del dialogo – «I personaggi, per vivere, devono poter fare da soli, ciascuno con il suo modo di parlare e secondo le proprie capacità; l'autore dovrebbe starne fuori: non dovrebbe raccontare, solo mostrare» – Heinz osservava una regola: eliminare le parole inutili. I commenti. A cominciare dagli avverbi.
Il professionista è la storia di un pugile, Eddie Brown, che si prepara per il mondiale dei pesi medi ed è anche, tra le righe, una lezione sulla noble art dello scrivere. «Dilettanti ce n'è ovunque, dappertutto», ma il professionista, sul ring o sulla pagina, è colui che dedica anni a studiare i dettagli. A spostare il peso del corpo per non prendere un colpo che sembra inevitabile o a schivare la frase storta – la insidiosa banalità – che mette lo scrittore al tappeto.
La famosa metafora dell'iceberg di Hemingway per Heinz non riguarda solamente lo stile, «scarno ed essenziale». La parte che emerge sulla pagina nasconde una meticolosa documentazione. Il pugile e il narratore di Heinz – il suo nome è Frank Hughes – vivono per settimane in simbiosi, fianco a fianco, accumulando esercizi e pagine di appunti. In palio, per Brown c'è il titolo di campione del mondo: per Hughes, il titolone – per non parlare del testo – sulla copertina del magazine, che, in caso di sconfitta, diventerebbe quasi inservibile.
Non inferiore per qualità letteraria, ma del tutto diverso perché appartiene all'ambito della meta-fiction, è Il curioso caso di Sidd Finch di George Plimpton che capeggia lo squadrone degli scrittori di sport nella collana «Attese» della editrice romana 66th and 2nd. Plimpton (1927-2003), era una sorta di genio rinascimentale. Uomo di una bellezza apollinea, cronista sportivo e poi direttore della raffinata «Paris Review», inventò il cosiddetto «giornalismo partecipativo». Si misurò personalmente con vari campioni e tirò di boxe anche con Archie Moore, allora cintura mondiale dei mediomassimi. Per poco non si ruppe il naso, ma poté scriverne con cognizione di causa. Sidd Finch è l'articolato resoconto di un pesce d'aprile ordito dallo stesso Plimpton su «Sports Illustrated» (1985). Protagonista un pitcher tibetano capace di lanciare la pallina da baseball alla incredibile velocità di 270 chilometri all'ora. La storia, con tanto di foto fasulle, fece scalpore all'epoca e, raccontata in forma di romanzo, è ancora oggi un libro di gran classe.
Segnalo anche la bella introduzione-confessione, scritta appositamente da Jim Shepard per l'edizione italiana di Non c'è ritorno, un volume di racconti – non tutti di sport, in verità – che ci portano in prima linea sul fronte della letteratura di avanguardia. La sconsiglio però a tutti coloro che non sono mai stati malati di tifo. Non capirebbero. Agli adepti invece ricordo che Shepard è stato allievo di Robert Coover alla Brown University, e che le sue storie non solo iniziano ma di solito si concludono anche in medias res. Non significa certo che non abbiano né capo né coda ma è sottinteso che sono riservate, come si dice di certi cruciverba, ai lettori più esperti. Esperti di stratagemmi narratologici.
Indico ancora due novità – editoriali, non letterarie – che hanno come tema o filo conduttore il pugilato anche se non trascurano di mettere il dito sulla storia recente e sulla politica. Il primo, Così in terra (Dalai) è il romanzo di un italiano, Davide Enia, ambientato in Sicilia. Il secondo. L'altro, ambientato a Parigi, a Cuba e nelle West Indies è opera di un francese giramondo che si chiama David Fauquemberg. Il titolo, anche nella versione italiana, è Mal tiempo (Keller editore).
E concludo segnalando la recente assegnazione del Gran Premio Schiller a Giovanni Orelli. Ticinese, Orelli è autore di un autentico gioiello, Il sogno di Walacek, a suo tempo pubblicato da Einaudi (1991) e ora ripreso da 66th and 2nd, con un saggio di Rossana Dedola. Scritto in uno splendido italiano, Il sogno di Walacek è un simposio di voci in cui filosofi del passato e tifosi di un paesotto alpino intervengono a sostanziare una narrazione che prende spunto dalla vita di un campione che nel 1938 fu tra i protagonisti della storica vittoria della Svizzera contro la Germania ai mondiali. Ma, davvero, non è tutto qui. Leggere per credere.

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