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Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2012 alle ore 15:35.

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Nella foto una scena del film «La congiura della pietra nera»Nella foto una scena del film «La congiura della pietra nera»

L'estate al cinema è spesso sinonimo di recuperi eccellenti: se nelle scorse settimane hanno trovato il giusto spazio sul grande schermo titoli importanti come «The Way Back» di Peter Weir e «Take Shelter» di Jeff Nichols, in ritardo di quasi due anni rispetto alla loro uscita ufficiale, in questa prima settimana di agosto arriva nelle nostre sale «La congiura della pietra nera», pellicola presentata fuori concorso alla Mostra di Venezia 2010.
Diretta a quattro mani dal celebre John Woo, che in quell'edizione del festival lagunare venne onorato del Leone d'Oro alla carriera, e dal semi-sconosciuto Su Chao-Bin, «La congiura della pietra nera» è un dramma storico, ambientato nella Cina del 428 d.C., con protagonista Michelle Yeoh.
L'attrice malese (nota per i suoi ruoli ne «La tigre e il dragone» di Ang Lee e in «Memorie di una geisha» di Rob Marshall) interpreta qui una celebre spadaccina che decide di cambiare volto e nome per sfuggire a una taglia messa sulla sua testa da una banda di assassini. Nel momento in cui sembra essere riuscita nell'intento di dare un corso diverso alla sua vita, sposandosi con un uomo in apparenza semplice e tranquillo, il passato che pensava di aver allontanato per sempre tornerà a bussare alla sua porta.

Se il precedente «La battaglia dei tre regni», diretto da Woo nel 2009, risultava eccessivamente prolisso e serioso, con questa sua ultima fatica l'autore hongkonghese e il suo co-regista sviluppano un approccio più leggero e scanzonato, alternando ai tanti momenti epici, oltre che agli splendidi duelli coreografati come fossero dei balletti, situazioni divertenti e personaggi ai limiti del surreale. Il modello di riferimento sono i wuxiapian (il filone "cappa e spada" in salsa orientale) degli anni '70 e ‘80, dai quali «La congiura della pietra nera» prende pregi (spettacolarità e ironia in primis) e difetti (una sceneggiatura con risvolti narrativi spesso fragili e poco credibili).
Niente di ricercato, ma una salutare boccata d'aria fresca in un'estate dove i titoli degni di nota scarseggiano: un plauso quindi ai due registi, capaci di regalare agli spettatori quasi due ore di buon intrattenimento.

Visione decisamente meno coinvolgente è quella di «Dream House», horror psicologico diretto dall'irlandese Jim Sheridan con protagonisti Daniel Craig e Rachel Weisz.
Infarcita di scontati colpi di scena, la trama è incentrata attorno alla famiglia di Will Attenton, un editore di successo che decide di trasferirsi con moglie e due figlie in una splendida villa lontana dalla caotica New York City, dove erano vissuti fino ad allora. Presto però scopriranno che la loro nuova casa è stata teatro di un'orribile carneficina, le cui conseguenze non sembrano essersi ancora esaurite.
Incapace di avere una singola sequenza realmente degna di nota, il film altro non è che una galleria di clichés narrativi accompagnati da una regia stanca e priva di mordente.

Un peccato vedere la carriera di Jim Sheridan (regista che, negli anni ‘90, aveva diretto titoli importanti come «Nel nome del padre») aver preso negli ultimi tempi una tale china negativa, iniziata nel 2005 con «Get Rich or Die Tryin'», con protagonista il rapper 50 cent, e proseguita nel 2009 con il melenso «Brothers». Se questi due titoli risultarono dei netti flop, «Dream House» ha fatto ancora peggio, non essendo riuscito a incassare negli Stati Uniti nemmeno la metà dei costi di produzione e avendo ottenuto quasi unicamente critiche negative: non a caso Jim Sheridan, prima che il film esordisse nelle sale americane lo scorso settembre, dopo aver visionato il montaggio finale cercò in tutti i modi di far rimuovere il proprio nome dai crediti della pellicola.

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