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Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2012 alle ore 15:24.

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Quanto alle sue opinioni, appunto, sono tutte criticabili. Il letterato aveva la tendenza a liquidare con troppa facilità scrittori autentici come Faulkner o Maugham, e non sapeva essere davvero giusto coi suoi contemporanei (Updike per primo): era straordinario nel trovare difetti, e nel dissezionarli, era meno bravo nel lodare (c'entrava, in questo, l'umanissimo sentimento dell'invidia – «Non basta vincere: gli altri devono fallire», era un suo motto – e l'idea di non essere apprezzato secondo i suoi meriti). Ciò detto, le sue ironie sul nouveau roman, o sul gergo in uso nei dipartimenti di Humanities, o sugli scrittori postmoderni americani, si leggono ancora con grande piacere e ammirazione a distanza di decenni: Vidal aveva l'indole conservatrice e i pregiudizi dell'umanista classico, ma ne possedeva anche il buon senso. Per chi studia o per chi insegna letteratura, leggerlo può avere un effetto tonificante, perché Vidal va dritto al punto che lo interessa, non si nasconde dietro le citazioni, si esprime con chiarezza: tre abitudini non troppo diffuse dentro le aule dell'Accademia.

Lo storico aveva una certa propensione a contaminare fantasia e realtà, e ad accordare più fiducia di quanto meritassero alle ipotesi di complotto (celebre fra tutte quella secondo cui Roosevelt sarebbe stato a conoscenza del prossimo attacco giapponese su Pearl Harbor: nella polemica, Vidal si trovò, direi giustamente, da solo); ma Vidal non ha mai creduto, come pure si legge ogni tanto, alla tesi del complotto neocon dietro l'attacco alle Twin Towers: «Li credo capaci di tutto, ma sono troppo stupidi per aver architettato una cosa del genere».
Infine, le sue opinioni, i suoi saggi sulla politica e la società contemporanea. Qui, a mio avviso, raggiunge la perfezione: un patchwork di intelligenza, erudizione, pettegolezzo, senso dell'umorismo e indipendenza di giudizio.

E il tono è sempre quello deliziosamente blasé di chi ha condiviso la sala da pranzo, o il club, o la camera da letto, con buona parte dei personaggi famosi citati pagina dopo pagina. Vidal scriveva di Stati Uniti, ma non soltanto. Il suo saggio su L'Italia di Sciascia comincia così: «Dalla Seconda guerra mondiale, l'Italia è riuscita, con caratteristico talento, a creare una società che combina alcuni dei meno affascinanti aspetti del socialismo con, in pratica, tutti i vizi del capitalismo. Non è stata l'impresa di un giorno...». Non male, vero, per uno straniero di passaggio? Ed è solo il quarantaquattresimo dei centoquattordici saggi compresi in United States; ripeto: uno dei grandi libri del secondo Novecento.

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