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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2012 alle ore 08:19.

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La risposta della Chiesa di Roma alla sfida della Riforma protestante fu lenta e difficoltosa. Troppe fragilità personali, troppa distanza da ogni autentica sensibilità religiosa, troppi interessi fiorentini avevano impedito ai papi medicei, Leone X (1514-1521) e Clemente VII (1523-1534) di promuovere qualche significativo rinnovamento pastorale e istituzionale, e anche lo sfrenato nepotismo del loro successore, Paolo III Farnese (1534-1549), fu ben lungi dal segnare una svolta.
Ciò contribuisce a spiegare perché solo nel 1542, ben 25 anni dopo le tesi di Wittenberg, fosse istituito il Sant'Ufficio dell'Inquisizione romana, con il compito di debellare ogni forma di dissenso religioso, e solo nel 1546 potesse infine riunirsi il concilio di Trento, destinato tuttavia a concludersi solo nel 1563. Le istanze della repressione precedettero dunque quelle della riforma della Chiesa in capite e in membris, e ne segnarono profondamente la presenza e il ruolo sociale, il magistero dottrinale, gli orientamenti politici, l'identità storica lungo tutto l'arco di una Controriforma destinata a durare fino al concilio Vaticano II.
Tra i compiti primari di questo capillare controllo della vita religiosa, com'è ovvio, emerse l'esigenza di sorvegliare la circolazione dei libri, quel possente strumento di diffusione delle idee che lo stesso Lutero aveva definito come l'ultimo e il più grande dono di Dio, con il quale aveva voluto far conoscere «fino ai confini del mondo» la vera fede di un cristianesimo rinnovato. I primi elenchi di libri proibiti cominciarono a circolare precocemente in sede locale, fino all'Indice pubblicato nel 1549 a Venezia dal nunzio Giovanni Della Casa, al rigorosissimo Indice di Paolo IV del 1558, all'Indice tridentino del 1564, a quello di Clemente VIII del 1596: compito di tale importanza e di tali dimensioni da convincere Pio V, il papa inquisitore per eccellenza, a istituire nel 1571 una nuova congregazione cardinalizia, destinata appunto a questo compito.
Un compito immane e di fatto impossibile, che esigeva di fronteggiare una marea di libri sempre crescente e ovunque pullulante, al punto da indurre il cardinale Roberto Bellarmino, diventato poi san Roberto Bellarmino dottore della Chiesa, ad affermare mestamente che sarebbe stato opportuno che per molti anni «non vi fusse stampa» e ad ammettere che i censori romani riuscivano a stento e tra molte falle ad arginare la diffusione dei libri eterodossi soltanto al di qua delle Alpi, «almeno qui dove potiamo». L'Italia diventava così l'ultima e assediata cittadella della fede cattolica, poiché in Spagna agiva un'Inquisizione controllata dalla corona (e quindi sensibile alle sue esigenze politiche e giurisdizionali) e in Francia pluralismo religioso e istanze gallicane facevano diga al centralismo romano e impedivano che le autorità romane diventassero «signori di libri», domini librorum, come denunciava Paolo Sarpi. Un compito tanto più impossibile, infine, in quanto occorreva distinguere tra libri da condannare e libri da espurgare, libri del tutto erronei e libri non privi di errori, e ancor più perché il dilatarsi del concetto stesso di eresia dalla teologia alla filosofia (il platonismo), alla scienza (Galileo), alla letteratura, alla pseudosantità, al diritto finiva con l'estendere di fatto a tutta la produzione tipografica una sorveglianza destinata a diventare sempre più illusoria e velleitaria con il passare del tempo.
Ad essere coinvolti in questa debole quanto ossessiva prassi censoria furono anche i libri giuridici, come spiega in questo saggio Rodolfo Savelli, storico del diritto attentissimo alla contestualizzazione storica e quindi capace di cogliere con finezza le ragioni specifiche delle censure ecclesiastiche, dal «lento avvio» cinquecentesco fino al tramonto nell'età dei Lumi, quando esse finirono con il perdere di credibilità e valore, fino a diventare oggetto di scherno, nella convinzione che a Roma si proibisse «tutto ciò che non è Bellarmino». Libri che incrociavano una molteplicità di temi particolarmente sensibili per le autorità religiose, come il prestito a interesse, per esempio, o le prerogative statali, l'amministrazione della giustizia e le immunità, il foro ecclesiastico, i matrimoni, questioni delicate, che rischiavano di sconfinare sul terreno sempre più dilatato dell'eresia: i libri che difendono «l'autorità temporale del principe», scriveva ancora Sarpi, sono «dannati e perseguitati più degli altri». A ciò si aggiungevano anche gli interessi materiali di tipografi e librai, che traevano profitto dallo smercio di opere che costituivano oggetto di studio nelle Facoltà giuridiche: di qui la particolare attenzione di cui furono fatti oggetto i commentari alle Institutiones, pubblicati a volte con l'esplicita precisazione che in essi era stato omesso tutto ciò che fosse contrario alle norme del diritto canonico. Ne scaturivano oggettivi limiti di conoscenza e soggettivi scrupoli di coscienza (tali a volte da indurre a chiedere il permesso di leggere libri che non erano proibiti), censure e autocensure, favoritismi ed espedienti, autorizzazioni concesse e negate, all'insegna del costante timore delle autorità ecclesiastiche per la libertà di coscienza, per il discernimento dei fedeli. E intanto già nel Seicento la lista degli autori condannati si dilatava a comprendere numerosi giuristi cattolici, italiani, spagnoli, francesi, anch'essi schieratisi in difesa dell'autorità secolare contro i privilegi e le immunità ecclesiastiche, a dimostrazione di quanto il baluardo dei censori romani cominciasse a dare segni di cedimento.

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