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Questo articolo è stato pubblicato il 19 agosto 2012 alle ore 08:15.

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Nell'inverno del 1957-58, quando abitava a Torino, – ricorda Giovanni Giudici – un gruppo di amici langaroli, tra cui Giovanni Arpino (all'epoca piuttosto noto come narratore), organizzò una cena in un ristorante di Montà d'Alba. Quattro o cinque commensali, un ottimo Barbaresco, le solite discussioni di letteratura. Solo uno dei presenti parlava pochissimo. Anche lui però, venne fuori, era uno scrittore. Che tipo di scrittore, esattamente? Interrogato, il collega taciturno confessò alla compagnia che aveva cominciato a stendere il suo prossimo romanzo in inglese, con la ferma intenzione, poi, di autotradursi. Da cui, prevedibile, la replica di buon senso dello stesso Giudici: «E non faresti prima a scriverlo in italiano?». Solo parecchi anni dopo Giudici avrebbe capito che quel libro irragionevole era Il partigiano Johnny, come ha raccontato in un articolo del 1995. Il collega taciturno (Beppe Fenoglio) aveva scelto la strada più lunga, ma – ormai era chiaro – così facendo aveva anche imboccato la strada giusta. E a Giudici, nel raccontare l'episodio a tanti anni di distanza, non rimaneva che ridere della propria «pigra e banale obiezione».
L'aneddoto è solo una delle tantissime storie su Fenoglio che si possono scoprire perlustrando la stampa quotidiana e settimanale in cerca di notizie sul grande romanziere piemontese. Morendo nel 1963, a quarantuno anni non ancora compiuti, Fenoglio lasciò un gran numero di amici, ammiratori, conoscenti, ex professori, compagni di lotta partigiana e colleghi di lavoro tutti variamente inconsolabili, che nei decenni successivi, a mano a mano che la sua fama di scrittore guadagnava consensi e solidità, non si sottrassero al compito dolceamaro del ricordo.
Frammenti di vita, idiosincrasie letterarie, dettagli carichi di senso per penetrare la psicologia del narratore: non manca davvero nulla. La qualità delle informazioni cambia a seconda del testimone (e non bisogna mai dimenticare quanto la memoria orale sia spesso infida e traditrice), ma nel caso di Fenoglio, si tratta spesso di tasselli essenziali per entrare nel suo mondo. Ci sono innanzitutto i gusti letterari e le dichiarazioni di poetica, indissolubilmente intrecciati agli aneddoti della vita di tutti i giorni. E si tratta spesso di lampi inaspettati sulla fabbrica romanzesca dell'autore: la passione per l'Antigone durante gli anni del liceo, quando, ancora ragazzo vi leggeva un invito a "rifiutare i federali" e il fascismo; i sonetti di Shakespeare ricopiati sulla fodera del giaccone di pecora da combattente durante l'avventura partigiana; il sogno di ritradurre Moby Dick («La traduzione di Pavese non la discuto, anche se certe pagine le interpreterei in modo diverso, come certi scatti di dialogo. Ma ci sono due o tre pagine che non dovevano essere tradotte perché non sopportano nessun tipo di traduzione»); la difesa con la sorella Marisa del finale apparentemente affrettato dei Promessi Sposi («Quando le cose si mettono bene, bisogna chiudere, alla svelta. Non fanno letteratura, non fanno romanzo. La letteratura, il romanzo è quello che viene prima»); la conoscenza a memoria di ampie sezioni dei Vangeli; l'entusiasmo per il lessico raro di un'antica cronaca piemontese ("parotto", "bronza", "scudella"); la difficoltà degli esordi («Ricorda l'inizio di La malora? Mi è costato una fatica d'inferno»); il fastidio dei contadini delle Langhe per gli scrittori di città che raccontavano le loro storie; l'autointerpretazione de La malora come «biblica storia dell'allontanamento dell'uomo dal paradiso terrestre»; l'ossessione per Omero; l'improvvisa fiamma per Marziale e per Belli; la lotta quotidiana con la cameriera che rifaceva le camere dell'albergo in quota dove lo avevano spedito i medici, l'ultima estate, perché lei continuava a riporre i volumi della sua edizione delle Storie di Tito Livio «nell'ordine numerico e non così come li aveva lasciati, nel disordine che l'esigenza della consultazione richiedeva».
Ne emerge un Fenoglio singolare: meno monomaniacalmente inglese di quello che ha tramandato sino a oggi la tradizione biografica e particolarmente affezionato ai classici latini e greci del liceo. A livello della ricezione colpisce invece soprattutto il peso della politica e dell'ideologia nell'Italia del secondo dopoguerra. Dei sospetti e delle censure da parte comunista negli anni dello stalinismo culturale (con poche notevoli eccezioni, come Italo Calvino e Oreste del Buono), si sa già abbastanza perché non valga la pena tornarci ancora sopra. Completamente inedito è invece il ruolo di primo piano tenuto da Anna Banti per promuovere il nome di Fenoglio tra il gruppo che ruotava attorno alla rivista «Paragone» e tra le maggiori personalità della cultura di orientamento liberale, da De Robertis a Montale a Contini. Se il suo attivismo a favore dei suoi libri è noto, dai giornali dell'epoca appare invece il senso prettamente politico della missione intrapresa dalla Banti per strappare il monopolio della Resistenza ai "rossi", sino a farne un episodio di primo piano della "Guerra Fredda culturale".
Fu un'infatuazione così esclusiva, quella dell'autrice di Artemisia, da far scontrare ogni volta Fenoglio con tutti i suoi precedenti sostenitori: con Vittorini, quando in una recensione contrappose I ventitré giorni della città di Alba alla generale mediocrità della collana (diretta da Vittorini) dove il volume era apparso (provocando un immediato raffreddamento tra i due, che dopo il secondo libro avrebbe portato Fenoglio a lasciare l'Einaudi); ma anche con Garzanti, quando la Banti e il marito Roberto Longhi decisero di presentare al premio Strega Primavera di bellezza contro la volontà dell'editore, già impegnato in quell'anno, il 1959, a sostenere Ragazzi di vita di Pasolini. Garzanti perdonò, ma non Pasolini: che - assai poco sportivamente - dopo aver sempre parlato bene di Fenoglio sino al fatidico premio, a dieci anni esatti dalla morte scrisse una feroce stroncatura della sua opera come introduzione a una edizione celebrativa degli scritti di Fenoglio per l'editore Panizza. La Banti, quanto a lei, continuò fino ai suoi ultimi anni a polemizzare contro tutti i nuovi sostenitori di Fenoglio (Maria Corti in primis): come se non tollerasse di aver vinto la sua battaglia e rimpiangesse quando a commuoversi su Un giorno di fuoco erano solo un pugno di happy few.

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