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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2012 alle ore 07:54.

È il proprio il caso di dirlo, se si scrive della famiglia Filistrucchi: toglieteci tutto, ma non le parrucche. Nati "cava-denti", flebotomi, barbieri, profumieri, truccatori e acconciatori nel 1720 a Firenze, nell'allora via del Fosso, i Filistrucchi hanno abbandonato nel corso degli anni tutti i business collaterali. Del resto, l'epoca del Barbiere di Siviglia, parruccaio e parrucchiere tuttofare, si è ammutolita da un bel pezzo.

Rotolata via con le teste di notabili e aristocratici nell'ondata di egualitarismo rivoluzionario di Robespierre e compagnia ghigliottinante. Al grido di liberté, égalité, fraternité, i giacobini hanno dato un taglio anche alla moda delle parrucche incipriate e a due secoli di eleganza di corte. I Filistrucchi, invece, hanno tirato dritto nei loro affari. Hanno ceduto il titolo di "cava-denti" ai dentisti e "cava-sangue" ai medici, ma non hanno mollato trucco e parrucca. Sulla carta un suicidio imprenditoriale. Da quasi trecento anni stessa casa e stessa bottega – ora in via Verdi 9 – che due alluvioni (il 3 novembre 1844 e il 4 novembre 1966) hanno sommerso ma non spazzato via. Anzi, più gli dai contro, ai Filistrucchi, e più tornano a galla con nuove idee di parrucche e di bellezza. Nei loro laboratori, oggi gestiti da Gabriele e dal figlio Gherardo, si respira ancora, e anche orgogliosamente, un'aria da Ancien Régime; come se Luigi XIV, il Re Sole, fosse ancora abbarbicato sul suo trono, splendido nel coprire la calvizie incipiente con fluenti parrucche bionde che facevano invidia a mezza Europa.

«Tutti volevano una parrucca come quella del sovrano. In un primo momento solo gli uomini, poi anche le donne», racconta ridendo Gabriele Filistrucchi. «È un passato fantastico che oggi ritorna nel sogno dello spettacolo, del teatro e del cinema. Il nostro mestiere in fondo non è cambiato: trasformare la persona in personaggio. Una volta lo si faceva per dame e cavalieri, dal Novecento in poi per chi calca il palcoscenico. E noi siamo sempre qui pronti a servire». La testa di Maria Callas è custodita gelosamente in un armadio al secondo piano della bottega. Le fanno compagnia i modelli in legno del cranio di cantanti e attori come Luciano Pavarotti, Renata Tebaldi, Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer, Romolo Valli, Alberto Lionello, Rossella Falk, Giorgio De Lullo. Tutte stelle vestite di capelli dai Filistrucchi. Prendere le misure, prima di tutto. Spiega Gherardo, ultima foglia della dinastia imprenditoriale fiorentina: «Ogni testa è diversa.

Banale dirlo, ma fino a un certo punto, visto che oggi le parrucche sono finite anche nei supermercati. Prodotti che al massimo prevedono un paio di taglie, perlopiù realizzate in Cina, capelli sintetici o, se veri, di scarsa qualità. Noi invece prendiamo le misure a partire dal modello della testa, perché la parrucca, insieme con il trucco, vale più di un costume o un vestito». In casa Filistrucchi il travestimento dozzinale è quasi eresia, le mille parrucche colorate di Lady Gaga, osservate da lontano con sospetto.
«Come acconciavamo La Divina, o più recentemente Takeshi Kitano, impegnato qualche anno fa in un film per la tv giapponese sul Rinascimento italiano, oggi lavoriamo con la stessa cura per attori di teatro, noti e meno noti, per ricostruzioni storiche televisive, per il cinema e anche per chi ha problemi tricologici e chi, malato di tumore, affronta le conseguenze della chemioterapia». In catalogo ce n'è per tutti. Toupet in capelli naturali, baffi, barbe e basette, in tutti i colori e tutte le fogge, e pure protesi pubiche, standard e su misura.
Un tempo si andava a far scorta di capelli al convento di clausura a due passi dalla bottega, con una particolare predilezione per le chiome delle novizie. Ora ci si affida a fornitori specializzati, che comprano capelli veri naturali, freschi di taglio. Per gli spettacoli settecenteschi, come spesso accade nell'Opera, si torna al gusto dell'epoca.

E qui scintillano gli occhi di Gabriele. «Luigi XIV, inaugurando la moda della parrucca, per poco faceva schiantare le casse di una nazione. Perché tutti volevano una parrucca come la sua: di un colore morbido, riflessi biondi che ingentilivano il viso. E allora ci fu una fuga di capitale verso i Paesi nordici, tanto imponente che si dovette ricorrere al pelo di yak giallastro per evitare di dissanguare l'economia. E così oggi facciamo noi, usiamo gli stessi materiali e gli stessi strumenti del periodo». E poi ci sono le parrucche in lana, se sul palco ci sono faraoni egiziani, o di cartapesta per particolari rappresentazioni, e anche maschere in silicone. «Il realismo cinematografico americano ha portato sullo schermo anche la violenza. Noi ci occupiamo anche di questi effetti scenici, in una visione a 360 gradi della parrucca, accessorio di costume, e complemento del personaggio». Quindi l'offerta dell'azienda si è ampliata in trecce, code, staffe, calchi e impronte, body painting, nasi, orecchie e corna. «Si fa tutto qui. Dalle parrucche alle maschere per una festa di compleanno fino a collaborazioni con aziende sanitarie. Siamo in grado di ricostruire con il silicone parti di corpo umano per studenti e ricercatori». A trecento anni dalla nascita, hanno ancora grinta da vendere i Filistrucchi. «Se ci fossimo piegati alle leggi del mercato, avremmo dovuto chiudere i battenti nel 1789. E invece siamo ancora qui». Con qualche capello in meno, ma più vivi che mai.

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